Quando il film supera il libro. È questo il caso della rappresentazione cinematografica “127 ore”, brillantemente diretta da Danny Boyle e magistralmente interpretata da James Franco. In effetti, nel libro, scritto dal protagonista di questa sciagurata avventura, l’eccesso di flashback autobiografici – ai quali vengono dedicati interi capitoli – “schiaffeggia” un lettore immerso in un dramma concreto e interiore, per riportarlo continuamente alla realtà.
Il protagonista della vicenda è l’americano Aron Ralston, un giovane ingegnere appassionato di arrampicate e canyoning, che maldestramente decide di avventurarsi nel Blue John Canyon (Utah) senza lasciar detto a nessuno, prima della partenza, quale sarebbe stata la sua meta. E sembra proprio che il destino si accorga di questa insolita leggerezza: un innocuo capitombolo di qualche metro provocato da un’instabile roccia di appoggio ed è la tragedia: Aron viene tradito due volte dalla stessa roccia che lo ha fatto precipitare e che, dopo aver rotolato assieme a lui verso la base del canyon cinge, con tutto il suo enorme peso, il braccio destro dello sventurato sulla parete verticale, senza concedergli scampo.
«Non ha cibo né acqua. Non ha speranze di soccorso. Non ha scampo. La storia di una sfida vertiginosa tra l’uomo e la roccia. Quando ho letto questo libro ho avuto una reazione molto forte. Volevo farne un film». Con queste parole Danny Boyle sintetizza efficacemente il confronto tra l’uomo, la prigionia fisica, la solitudine, la consapevolezza della morte in agguato; e poi con il decadimento psico-fisico che 127 ore, appunto, di intrappolamento comportano: denutrizione, disidratazione, privazione del sonno (causata dalla posizione all’impiedi cui Aron è costretto). Tanto che, col passare delle ore, le preoccupazioni concrete e la pianificazione di ipotesi per uscire da quella situazione, lasciano il posto ad un viaggio interiore, onirico, allucinatorio, fino a quando il protagonista, in un ultimo sussulto di disperata e folle lucidità, opta per il gesto estremo: recidersi il braccio con un rudimentale coltellino svizzero.
Danny Boyle, al contrario del protagonista e autobiografo Aron Ralston, non distoglie mai lo spettatore dalla tragedia, riuscendo a piombarlo fino alle radici del terrore più ancestrale, quello di una morte lenta e agonizzante, per poi ridestarlo con la follia dell’automutilazione, gesto del quale si sente parlare solo a proposito di animali intrappolati nelle tagliole.
Avvicente, disperante ed infine entusiasmante. Merito anche dell’interpretazione dell’unico attore su cui si regge l’intero film, James Franco.
Luigi Buò