Le luci della città si accendono e si spengono a intervalli regolari flirtando con le stelle che segnano il cielo come vecchie ferite mai sanate. Mi perdo tra il divano e il balcone, osservando le esistenze misere che si trascinano per le strade attraversate da silenzi strani e rumori ancestrali. Il suono variabile e noioso di una dopo-storia che ci avvolge da ogni parte coi suoi viscidi tentacoli, rimbomba dolcemente nel mio bicchiere di gin. Comincia a piovere. Dentro di me. Scendo per confondermi con la notte. Per diventare tutt’uno con la vegetazione che dal Vesuvio si estende fino alla costa di questa periferia profonda del sud del mondo perennemente mutevole. Con i casermoni popolari simili ad alveari. Col mare nero come il petrolio arabo. Con le montagne e i borghi medievali, eterni soggetti di cartoline turistiche. Colle rovine di civiltà perdute che hanno lasciato i segni del loro passaggio, resti di popoli barbari nel cuore della modernità tecnologica. Con i volti degli scannati sempre atteggiati a macchiette. Con gli eroinomani dalle vene cascanti. Così mi ritrovo a vagare tra templi e fast-food con insegne al neon, mucchi di immondizia bruciata e palazzi pseudosignorili. Non riesco a registrare le mie sensazioni se non riducendo la mia capacità percettiva, mortificando la mia volontà di accogliere tutto quello che mi circonda e mi comprime da ogni lato. Continuo a passeggiare, sono le due e tre quarti ormai. Mi abbandono lasciandomi trasportare su sentieri isolati dalla casbah di musiche tragiche . Lasciando alle mie spalle un desolante deserto, un cumulo di macerie che cresce. Arrivo ad un’area di servizio su una strada sconosciuta. Il bar è ancora aperto. Entro, lentamente.