La leggerezza di Sara Teasdale (1884-1933) insegue la luce dell’amoroso incanto senza perdersi, perpetuando il baluginare della sua coltre e del suo tratto che, come scrive Silvio Raffo, a cui si deve la conoscenza in Italia di questa poetessa, «è sempre leggero ma preciso, l’immagine solida e campita, l’incisività infallibile, senza traccia di sbavature. Tant’è vero che la critica a lei contemporanea la considera «sostanzialmente classica», del tutto aliena da tentazioni avanguardistiche. «Scrisse versi tecnicamente perfetti, limpidi, di grande purezza, generalmente avvalendosi di metrica convenzionale, di preferenza quartine e sonetti», così recita di lei l’Encyclopedia Britannica, e l’ “Academy of American Poets” non esita a riconoscerle una straordinaria finezza e duttilità poetica, in un felice connubio di forme classiche e soggetti romantici».
Come si fa a mantenere lo stupore della leggerezza dinanzi a una regola? Come si fa a introdurre lo stupore in un frammento di poesia inciso? E infine, come si fa a scrutare l’infinita stanza dell’affettività senza produrre psicosi?.
Il verso di Sara Teasdale sfugge alla umbratile sensazione edulcorante, rimanendo ferma nelle regole chiare ed immediate della sua forte tenuità. Lo stupore diviene sempre un giudizio che diventa attaccamento, alla materia dell’esistere, del vivere, all’io che si porge con delicatezza a un tu senza strapparsi, ma affermando la bellezza dell’essere, la realtà del qui e ora, i volti cari e importanti, il segmento di ciò che vibra: «La mia ora di vento amo e di luce, / e volti e sguardi – la danza leggera / del mio spirito sempre mi seduce – / rondine lungo i cieli della sera».
L’universus conclusus, che sin dall’inizio della sua vita (nasce nel 1884 a St. Louis, Missouri, nel 1884 da una ricca famiglia aristocratica) elaborò, divennero il preludio di un rapporto privilegiato con la poesia e il fare poetico: i numerosi viaggi a Chicago e il contatto con il circolo di Harriet Monroe favoriscono la germinazione di una incisiva profondità evanescente.
Scrive ancora Silvio Raffo «Sara Teasdale è una donna di condizioni economiche agiate, che può permettersi di viaggiare molto, e lo fa con autentica passione, per un insopprimibile bisogno d’anima: non è una turista né una visitatrice in senso tradizionale, è piuttosto una “viaggiatrice” perenne, nel senso baudelairiano del termine, costretta da un innato demone della volubilità a rifuggire da ogni possibile ubi consistam».
La leggiadra introspezione del suo chiaro incanto permette la pura nominazione del tempo e del mondo, libera la sua nettezza verbale e permette che lo sguardo d’amore copra il fulgore della datità descritta, come attesa e chiarità: «Chiesi alle margherite in primavera / se fosse sincero il mio amore. / le brave margherite alla preghiera / rispondevano sempre, senza errore. / ora su campi spogli ed incolori / spira l’autunno ingrato / e nessuno di questi ottusi fiori / sa dirmi qualche cosa del mio amato» o ancora: «È la notte d’aprile un chiaro incanto, / ogni ramo è fiorito quanto può; / la pace scivola a quei fiori accanto, / a me soltanto no. / La mia pace risiede nel suo cuore, / dove è scritto che mai risposerò – / l’amore a tutti il cuore fa sereno, / a me soltanto no».
La sua inquietudine specchia la consistenza del paesaggio. Rimangono i pochi tratti che imperversano e si innervano nella sospesa e scarna progressività affettiva: «Il vento i lillà sta piegando, / le nuove foglie al riso il sole invita, / su un muro d’orto un fiore sta planando, / ma per me primavera è già finita. / Sugli argini il melo è fiorito, / ma invernale è il mio sentiero: / l’amore, in aprile sincero, / a maggio mi ha mentito».
I viaggi della giovinezza, dal Maine alla California, dall’Arizona all’Inghilterra (dove incontrerà la sua amata amica Virginia Woolf) fino alla costiera amalfitana, caratterizzano l’atteggiamento di stupore che pervade come una continua gemmazione. È lì la sua forza che si appropria della realtà per farla brillare, per sospendersi nel gesto d’amore, anche rappreso o sentenziato, ma sempre vivente come lama di sogno e speranza: «Speravo solo mi volesse amare – / baciarmi sulle labbra avrebbe ardito? / Ora sono un uccello intirizzito / che al sud vorrebbe ma non può volare. / Stasera che il suo amore mi ha donato / il mio cuore s’è fatto a un tratto triste: / è la realtà che al sogno non resiste. / Non è il suo bacio come l’ho sognato!».
La incisività salutare, che pullula nel suo spazio di intenti, carpisce la sua mancanza innata, quasi aggrumata, come un’anima nuda: «Sull’anima mia soffia un vento – / tutta notte gridare lo sento – / sulla terra per me pace non c’è / Se non insieme a te! / Ahimè che il vento saggia mia ha destato – / sull’anima nuda ha soffiato – / sulla terra per me pace non c’è / nemmeno insieme a te!».
Dalla prima raccolta Helen of Troy and Other Poems del 1911, seguita da Rivers to the Sea (1915), fino Love Songs del 1917 che le valse il premio Pulitzer come una delle più pure e chiare voci della letteratura poetica, il tema monologante scoperchia la stanza interiore della sua affettività in una passionale visione sospesa, distilla frantumazioni infinite che trasognano emblemi e figurazioni frante, come accade in Pace: «La pace in me fluisce, / marea che lo stagno lambisce; / ma mia dovrà restare, / non defluirà come il mare. / Io sono lo stagno celeste / che venera il cielo d’estate: / le mie speranze erano queste; / sublimi, ora in te confinate. / Io sono lo stagno dorato / nel tramonto che brucia e vuol morire – e tu sei il mio sole oscurato: / dammi le stelle tue da custodire».
La sua domanda si fa fuga inascoltata e impresa ardita e diventa silenzio di canto che ricorda le tenebre che approdano nei lidi, come prima ora d’amore. A proposito dei luoghi di Sara, Silvio Raffo annota: « […] della fascinosa meraviglia di questi luoghi Sara tiene sempre a specificare l’insufficienza rispetto alle “essenze” che inebriano l’anima bramosa sempre di un Altrove metafisico. Come risulta assai chiaramente da “Canto d’amore” (si può immaginare un titolo più scontato?) ogni bellezza visibile si dissolve se confrontata alla bellezza spirituale della creatura amata; perfino la musica di Bach, «suadente, chiara, netta», non può essere il “correlativo oggettivo” di un bene che trascende ogni finitezza»: «Una nuvola sono alta nel cielo / ed un corteo di stelle mi fa velo: / lieve, allegra, mai stanca di volare / mi specchio sopra il colle e lungo il mare – / ma perché i pini della selva ombrosa / mi chiamano sempre: “Fermati, riposa!”? / Scivola il mio mantello sulla luna, / acceco il sole in trono al suo fulgore – / nessun legame, schiavitù nessuna, / sono figlia del vento senza cuore – ma perché i pini della selva ombrosa / sussurrano sempre: “Fèrmati, risposa”?».
La sua finitudine, pertanto, sostanzia la radice dello stupore. La sublimazione di luoghi, correlati alla precipua stanza interiore, connota il dramma della rincorsa di chi desidera vivere ardentemente e lo proclama, irrorando del suo canto la brama infinita delle stagioni: «Per l’anima non soffro: non fa niente / se inappagata di qui se ne andrà – / vivrà molte altre vite certamente: / non ha confini, no, l’Eternità. / Per il corpo piuttosto mi dispiace / che presto sarà polvere sfibrata / senza avere goduto quella pace, / quella serenità tanto bramata».
La specula di questo inseguimento è il punto più alto della sua visione amorosa che tenta di spingersi in un luogo lontano senza riuscirvi, che soffia lo sgretolamento in un gioiello puro di liberazione e pienezza, in un abbraccio d’aria: «La vita è ricca di amorosi incanti, / di splendide visioni luminose – / onde azzurre spumose alle scogliere, / garruli fuochi in lingue scintillanti, / volti di bimbi in estasi sognanti / come coppe imbevute di chimere. / La vita vende gli amorosi incanti, / nella pioggia il pineto profumato – / c’è la musica, un alto arco dorato, / caldi abbracci, devoti sguardi amanti, / delizie dello spirito incorrotte, / visioni come stelle nella notte»
O ancora: «Ho seminato dovunque il mio amore / perché dovunque egli possa trovarlo; / lo strapperà al notturno tenebrore, / potrà di giorno nell’aria abbracciarlo. / Ho lasciato perenne nel suo sguardo / la mia ombra di desiderio alata: / sarà la nube d’ogni sua giornata / e nella notte il fuoco di cui ardo».
Lo stupore e l’incanto che invadono i suoi testi non sono il primo albore di un desiderio di annullamento nel molteplice, bensì sono traccia viva di tormento, tempesta, risposta oscillata e amor patiens, protesi all’immortalità fragile: «Presto il mio corpo sarà forma vana / oltre ogni voce ed ogni vista umana / e per quanto si svegli e soffra ancora / infinito sarà il suo sonno allora. / Ma l’anima mia fragile, ma questa / forma immortale mai non dormirà – / foglia nata da un vento di tempesta, / onda che il mare non ritroverà».
Partendo anche dalle raccolte successive, Flame and Shadow (1920) e Dark of the Moon (1926), il gesto della leggerezza subisce delle venature meditative e intirizzite. L’anima si appesantisce nella sua dolenza primigenia, nel suo sigillo ferito e balbetta la sua rivelazione che dona domanda e malinconia: «Al crepuscolo un tordo udii fischiare / tre note al bosco, e una stella creare. / All’improvviso il mio cuore angustiato / di lontano tornò, come rinato. / Tre note lacrimose, tre soltanto / con cui compose lo stellato canto. / Ed io mi appropriai della mia vita / e diedi un bacio ad ogni sua ferita».
Silvio Raffo sostiene che: «Il demone della musa teasdaliana è essenzialmente un demone di luce. La presenza ineliminabile dell’elemento “luminoso” […] è il corrispettivo poetico del suo atteggiamento nei confronti della vita. In qualsiasi spettacolo naturale, in qualsiasi opera dell’uomo e in qualsiasi persona, Sara cerca e individua la luce di cui è innamorata la sua anima: credo si possa adattarle l’attributo “poetessa platonica” proprio per questa continua ricerca di armonia, per l’inesausta esigenza che si avverte in lei di trovare conferme, nel variegato e contraddittorio tessuto del reale, delle sue irrinunciabili “visioni” interiori»: «Solenne si compì nell’aria bruna / della tragedia il perfetto finale: / sparì la bianca stella verginale / della sera, e salì rossa la luna».
La trama delle sue visioni interiori, pertanto, converge in una festa che non si acquieta, si spende per l’oggetto amato con pronta risolutezza, che invoca e si distende verso un destino di eternità da condividere: «[…] come all’arida erba rilucente / l’alba lascia fra sterpi aggrovigliati / una goccia d’arcobaleno ardente / su ciascuno dei semi rischiarati / così il tuo amore, una limpida aurora, / ha di me fatto strada iridescente / per continuare il viaggio ancora e ancora / e trasformare al mio sguardo ogni cosa – albero o pietra delicatamente / in immagine nitida e radiosa».
Le sferzate del dolore toccano la sua anima radiosa e umbratile, soggiogano il pensiero disincantandolo, propagano la spietata dolcezza della lucidità, come appello di occhi: «Mi bevono i tuoi occhi, ed è l’amore / a renderli d’un tratto luminosi – / i tuoi occhi così vicini ai miei – / i tuoi occhi curiosi. / Da tanto tempo ci amiamo, da tanto / sappiamo uno dell’altro la natura / ed il modo d’amare, e quanto dura / la gioia e il disincanto; / ma quando ci guardiamo non per gioco / l’un l’altro, intensamente, / allora comprendiamo quanto poco / ci si conosca dentro veramente; / lo spirito ci elude, fugge via / timido, in solitaria libertà – chi mai dei due saprà chi l’altro sia – / dimmi, chi mai saprà?».
L’arato campo dell’anima è una parola che resta, il silenzio del cuore, l’ampia fioritura delle terre polverose e le nuove arature. Ma ci vuole qualcosa da opporre alla Morte che balza nei vestiboli con la sua prossima vicinanza, qualcosa da opporre al cuore pesante all’imbrunire che sia spasimo e sorgente, falena e preghiera, meraviglia e ampio gesto: «Vorrei in punto di morte ricordare / quello che amai: la neve turbinosa / che come frusta mi sferzava il viso, / tutte le cose belle e delicate / di cui lieta patii le trafitture / con labbra sempre docili al sorriso – / io tutto amai con l’anima radiosa / sempre, nessuna forza risparmiando, / noncurante che si spezzasse il cuore – / cantavo come cantano i fanciulli, / tutto volgendo in musica e trovando / la vita di per sé meravigliosa».
L’intera esistenza di Sara Teasdale ha vissuto la pervicace specularità di luce e ombra, amore e morte, dolore e gioia stupita: sono le ore regali che la sua anima concede. Come il fallimento del suo matrimonio con il ricco industriale, Ernst Filsinger. I due vivono a New York e la loro unione, dopo l’entusiasmo febbrile dei primi tempi, inizia a scolpire la sua gabbia e si scioglie.
Scavalca le sue stelle disperdendo ciò che ama. La sorte deliziosa delle lune vespertine e gli steli immutabili della sua leggerezza erigono templi e svelano ambiguità, pur cercando compimento.
Il sovrano disvelamento tenue canta la nudità dell’esistenza, deve implorare vite risorte, giustificare il silenzio e allontanarsi dalla solitudine, e infine, febbrilmente, come la primavera, farsi domanda e sbocciare, perché il respiro imprendibile possa appagarsi e beffare la morte con l’ardore soverchio che ama la vita fino al suo estremo e tracimato pronunciamento.
Nel 1933 decide di togliersi la vita (uscirà postuma la sua raccolta Strange Victory). Risuonano come stoffe questi ultimi significativi barbagli che non annullano e non concludono le sue sfuggite parabole: «Luna che s’assottiglia come piuma, / nuvola che nell’alba lieve sfuma – luce che nella luce ama svanire / e dona ancora luce sul morire».