L’antologia di Cees Nooteboom (1933), di recente premio Lerici- Pea alla carriera, Luce ovunque. 2012-1964, rende giustizia alla trama poetica di un autore che ha vorticosamente lambito distanze e terre e ha, come annota Franco Cordelli,
«sia nei romanzi sia nei libri di viaggio, la stessa forma: una storia senza racconto. La durata, dice, appartiene al xix secolo: nel tempo nostro essa viene abolita – non per nulla la sua fisionomia, nello scrittore olandese, è super-compressa, si potrebbe dire che tende alla fotografia, alla soluzione unica, istantanea: presente e misteriosa. A volte solo chi c’era, chi ha vissuto con coloro di cui si parla, potrà capire».
L’estremità radiosa, di cui Nooteboom fa menzione, è una smisurata coltre litanica, uno sguardo che permea e vive di assenza, solitudine, segno e domanda annunciata, come le provviste che permettono la sopravvivenza della vita nella strada spinifex: «Colmare di presenza una stanza, / gesti, voci, domande. / Come vedere per la prima volta un angelo / e sapere che non esiste, / le ali sfilacciate, sporche di polvere e di muffa, / con piume troppo vecchie per il volo. / Così era, più o meno, quando scese la sera, / l’angelo si pettinò i capelli, / si sistemò le ali che non poteva / togliersi e si addormentò / nell’unico letto».
Commenta Herman van der Heide: «Esotica e inusuale, la parola disorienta e distrae dall’incipit che narra di un viaggio oltre il mondo, ma allo stesso tempo, in modo preciso, nomina il mondo. Dal modo molto generale e allegorico si passa a una denominazione scientifica. La strada spinifex diventa così un correlativo oggettivo per questa poesia e per tutta la raccolta».
La dissolvenza sente le grammatiche sbriciolate, l’euforbia, la nostalgia di desideri segreti e di forme svanite, e la visione prima del buio è un avvolgimento di sedie azzurre, di giorni e alfabeto di linee, come accade nel ricordo di Hugo Class:
«La sedia azzurra sulla terrazza, caffè, sera, / l’euforbia si tende verso divinità assenti, / nostalgica della costa, ogni cosa / un alfabeto / di desideri segreti, questa è la sua / ultima visione prima del buio, / il velo dentro la sua testa. Lui sa, / svaniranno le forme delle parole, / nel calice solo la feccia, / linee tra loro scollegate / che un tempo erano pensieri, / non verrà più parola alcuna / che sia vera. Grammatica sbriciolata, / immagini sfocate senza legame, / del vento il suono / ma non più il nome, / qualcuno l’ha detto / e la morte era distesa sul tavolo, / domestico pigro, in attesa / in corridoio, sorride stupidamente / sfogliando il giornale / con le sue folli notizie. / tutto questo lui lo sa, l’euforbia, / la sedia azzurra, il caffè in terrazza, / il giorno che lentamente lo avvolge / e se lo porta via a nuoto, / animale mansueto / con la sua preda».
Esiste qualcosa nel viaggio che «ci invita a cercare essere nella vita quel che non cessa di essere nella morte e nell’eternità» (Joseph Ratzinger), e non è una fuga o un calibrato caleidoscopio, è una viva domanda prospettica che confuta il tempo, lo pospone a ritroso verso, come annota Roberto Galaverni:
«[…] la nostalgia e il compianto per un’epoca di pienezza perduta, l’attrazione per il mito, l’ossessione della morte e della cancellazione, il dialogo con gli dei, gli eroi, gli «immortali», gli amici scomparsi, la scrittura come consapevolezza della frammentarietà e dell’incompiutezza del tempo esistenziale, come possibilità di ascolto e ricezione delle «voci» perdute ma anche come inganno e inadempienza inevitabili. […] Le suggestioni offerte dal paesaggio mediterraneo attraversato nei tanti viaggi, le immagini di un presente oscuro e manchevole non vivono di per sé sole, ma costituiscono ogni volta il pretesto per una interrogazione più ampia. A volte, come può accadere anche al narratore, l’esposizione del tema appare fin troppo esplicita e schematica, da programma, come se precedesse l’esperienza diretta. Ma in molti casi la definizione di una peculiare malinconia conoscitiva intrisa d’ombra e di silenzio risulta originale e persuasiva, soprattutto quanto la tensione evocativa della poesia – «la scrittura di cenere» – riconosce comunque la propria appartenenza al tempo della dispersione».
Ed ecco che la domanda diventa prolusione all’ultima luce delle stelle. Un limite effimero di ibisco, una promessa che racconta il mondo e svanisce: «è reale questa figura / seduta fuori all’ultima luce delle stelle, / che non vede il fiore, si brucia / alla fredda luce e nell’effimera / mattina raccoglie fiori / dalla terra nera e cede alla violenza / della luce del sole? […] Il postino in camicia gialla arriva al cancello, / racconta il mondo, consegna la lettera / a un vivo, ignora lutto e anima. / Vede i fiori rossi per terra, / dice: farà caldo oggi, / svanisce poi nella luce / e in questa poesia».
Nooteboom tocca sempre il limite dello svanimento e della fievole luce che appare ovunque ma, allo stesso tempo cede, si ritrae, coinvolge l’aria di ghiaccio e di grandine, sospendendo le stagioni nella scomparsa delle pieghe del tempo.
Il suo poetare, afferma Paolo Febbraro:
«[…] consiste in una calma tessitura dell’arbitrio: è sentenzioso perché la letteratura deve firmare con le sue limpide formule i fatti più sfuggenti e sconcertanti, farli passare per eterni, sovrapponibili. Tutti sappiamo che un cavallo, da solo, non avrebbe senso: ne ha solo quando ne appare un secondo. Tuttavia, questa somiglianza del mondo con se stesso non dipana il mistero. […] Siamo chiamati dentro un elegante gioco con l’enigma, coi dilemmi quotidiani del silenzio, della notte e dell’assenza. Di conseguenza, l’esotismo del grande viaggiatore, che attraversa decine di luoghi e migliaia di pagine, è un’illusione ottica: su ogni cosa si distende la stessa luce perplessa, sognata e fluttuante. Nooteboom canta l’essere e l’apparire, ma ha troppo poca fiducia nel loro rapporto».
La poesia, quindi, diventa il superamento della realtà in cui viviamo, come egli stesso sostiene in una intervista a Mirella Serri, lo scavo e lo scandaglio lucente di una folgore di avorio e gioielli che lottano, sminuzzati, tra la ghiaia dei giorni, tra i sassi e le conchiglie, per ammantarsi di tutto. È archeologia di luce ovunque, come un sogno di viaggi proibiti o pericolo di una porta socchiusa che capovolge l’esistenza, dove la morte non ha falce nel suo tappeto di stelle:
«Di notte, lungo palazzi di nuvole / e un’ultima terrazza di chiaro di luna, / il sogno di viaggi proibiti, / un portone, sempre chiuso, / ora socchiuso, il pericolo di un’altra / vita, una poesia / di un’esistenza capovolta, / in cui la morte non ha falce: / è un amante su zoccoli d’oro / che ti accarezza il seno / e srotola il tappeto di stelle / perché ti ci possa stendere sopra. / Luce ovunque, fino ai denti / della belva, fino alle unghie / dell’assassino e al pugnale lucente / che scrive l’ultima parola, / fuoco, poi con i tuoi occhi di nessuno / vedere senza mai una fine, / vedere chi eri» (Notte).
La figurazione di Nooteboom è intessuta di richiami profondi. Tutta la salvazione delle immagini parte dalla loro concrezione e unione sulla pagina e nella realtà, per cui si sommano pensieri e raggi improvvisi che si concentrano e si tradiscono: «E l’uomo che amava le donne da solo, / i suoi pensieri non andavano agli aironi. / Rugiada o pioggia / sulle foglie dentellate, / il richiamo di un treno / dal fondo. / Quanti, pensava, / quanti raggi ha la ruota / di un solo / giorno?» (April auf delm Lande).
Il linguaggio, allora, «levigato nei sogni, sui pulpiti, / impastato nei letti, in camere solitarie, / da usarsi in vita e in morte, arma / nella lotta contro il caso, astuzia / del destino», rappresenta il chicco, raccolto nella gioia e nell’amarezza, il limite del mare anonimo, il richiamo antico dove, sulle linee oraziane, ogni costa del mondo «tinta del nostro sangue» è «un racconto / che finisce in parole».
La stessa percezione è un esilio sublime che canta colline di splendore argentato, che si sospende nell’antifona delle nuvole di avorio dove il dio, presente in tutto, avvolge la sua creazione in un abbraccio di fuoco, spento nell’assenza fuori dal tempo e nella chiara luce che illumina la sua ombra.
La parola-istante deve inseguire il suo infinito disperdersi, inumidirsi negli anni che passano come istanti stranieri, essere occhi, guanto, cappello, per sempre, e avere un nome «che non assomigli al nostro, / che ci dimentichi. Ogni secondo / una cifra su un registro / di battiti di ciglia, sussurrio / origliato, versi di poesia / inframmezzati ai giornali, / sussurrio di brina e di neve, / la più lenta poesia / della durata. / Tutto a formare un cerchio, / tondo come un quadrato, / ogni cosa per sempre / sposata a se stessa».
La sua nostalgia iniziatica coinvolge l’incontro in un abito meraviglioso, dove la severa austerità di accessi di Juarroz, l’erranza di Wittgenstein caduto in una trappola «disegnata da lui stesso», il marmo incompiuto di Esiodo, la macchia di ruggine e la scure di Meng Jiao, il mare acquerello di Shelley, il riconoscimento del destino di Borges fino all’ultima liberazione e raggiunta assenza sconfinano poi ancora come una ripida di gallerie, nelle figure di Omero, Cartesio, Ungaretti, Wallace Stevens e Virgilio, i quali raffigurano non già un tentativo di sopravvivenza sopravveniente quanto piuttosto un incontro di voce limpida, un rapporto mai concluso con il tracciato della propria identità.
La poesia occasionale di Nooteboom è quasi strappata, poesia che si oppone al decadere, che tace e ascolta l’ultimo e ultimato dolore di un profumo rimasto o un’ombra sotto un sasso, che riceve e crea la vita nella perdita e nella gioia dei luoghi scorsi, nel destino di cardi e gigli, e, infine, nell’orizzonte avvicinato dello smagliante paesaggio «di tempo radioso senza presente».
La sua appartenenza radicata non si solleva dalla polvere dei secoli antichi, come se la radice del viaggio non sia il nomadismo, quanto piuttosto una aggrappata sinestesia di nomi e acqua sgorgata come anima: «Di piombo era il pomeriggio. / Dormiva la lepre, sognava la starna / La morte del cacciatore, e / Il ragno tesseva le reti di Euclide. / Tuttavia. Sotto gli alberi covava il seme / Del fuoco che / Sobbalzò, si scatenò e si mise a correre / Come un lupo impazzito, urlando e / Azzannando nidi e ragnatele. / Ciò che rimase era di cenere, e il vento, / Quando arrivò, toccò il / Baluginio ferroso tra il carbone degli alberi, / Ne diffuse l’odore nel / silenzio, e / Sfiorito era ormai il fiore del / Fuoco» (Fuoco).
Herman van der Heide scrive: «Nooteboom ha sempre collocato la natura al centro della sua poesia: lo si potrebbe dire un poeta presocratico per quel suo ricercare l’origine nei quattro elementi di acqua, terra, aria e fuoco. Mentre nella sua prima produzione dominano la terra e l’acqua – forse la parola più frequente nelle prime poesie è steen, «pietra» – nelle ultime, che sono le prime di questa raccolta, predomina la ricerca della metafisica associata all’aria e al fuoco».
Ecco allora che la luce diviene congiunzione esitante tra mondi e tra ossimori. Danza degli occhi e silenzio, il termine della lentezza e del tempo, l’origine della nebbia di ardesia.
La prospettiva oculare che mostra questo teatro è designazione, laddove l’ombra genera lo spasimo di una scultura di vertigine e ultimità che vuole liberarsi e, allo stesso tempo, celebrare l’istante denso dell’appartenenza e della vertigine rarefatta.
Non è un mondo separato quello che appare davanti agli occhi. La «metafisica incipriata» del poeta si nutre di visioni elementari e di mormorii, dove la litania dell’occhio impone la supremazia dell’estasi e della perdita, attraverso l’arabesco che conosce rifugio nel sipario della realtà presentata.
Dove gli elementi si incontrano e si scontrano, il desiderio di un posto nelle orme perdute si sospende nei corridoi messaggeri e nell’enigma diretto alla pace: «La montagna sonnecchia sotto terra, / E alta sopra la sabbia che mi divora / È sospesa la seducente ala / Di un fiume morto come il sole. / Sono stato ovunque, cane scacciato / In un mondo capovolto, / Le mie orme perdute in una tempesta di sabbia / Come una parola senza lettere, / Come un nome senza persona.(Empty Quarter)».
È il luogo inciso che viene accostato alle pareti dell’essere. Bogotà, il contagio del colore di Marrakesh, l’Itaca perduta di Omero, l’ormeggiato cielo di Fuji, l’albero sulla sua forma irripetibile vivono di silenzi messaggeri, dove raccogliere il passaggio austero di stagioni e condizioni, dove intingere la penna nelle rocce e scrivere su una tavola di schiuma, per dare il nome all’invisibile e agli specchi che appaiono e scompaiono e vivere «il perduto, disseminato, / per sempre assente / tempo»: «Le tre della notte. / Casse quadrate di silenzio intorno al letto, / strapiene e chiuse. / Ma quel silenzio ha spine / e fa un male che non passa poi più. / Il silenzio spiana il sentiero dove il messaggero / si aggira / e dice che il mattino di nuovo si farà sera. / E poi, / mi pettino le ossa, le raccolgo insieme, / mi preparo a un’altra traversata, entro in acqua, / e vivo» (Bogotà).
Queste alternanze di tempo e visione, pugno di cenere e baci, lentezza svanita e distanza richiedono il mondo spoglio e solitario, cercano senza requie trovando soltanto «i pesci / e non più il sacro / solo il mare che ancora batte, sospira e si frange / ma il profumo del mistero / lo lascia dissolvere / nel mondo che diviene spoglio e solitario / come la carogna di un gabbiano sullo scoglio / nel tempo che resta come misura / ora che l’eternità è morta / la regolarità offuscata / di qualcosa di piccolo senza qualcosa di grande» (Poseidone e Anfitrite, Villa Stabia, Pompei).
Il termine aperto di questo testo si conclude con i due componimenti della raccolta Poesie chiuse del 1964. Sono lo specchio a ritroso del tempo che ritorna all’origine e recupera i frammenti di un tempo che esilia la mitologia sia nella tracimata corruzione del movimento, sia nella lunghezza spazio-temporale: «Campagna sotto la pioggia / una spada arrugginita. Un mito logorato dall’uso. / Gli immortali sono morti e dimenticati, / loro casa è una tomba. / Il loro occhio è una pietra con cui vedono tutto: / questo punto e la sua distanza, / e tutte le lunghezze di tempo nel mezzo – / la voluttà che sempre più avvolge i loro corpi / in un movimento corrotto» (Campagna sotto la pioggia).
O nella chiusura di Golden Fiction, che è sì marca di sigarette, ma esemplifica una chiusa metafisica di voce solitaria. La vertigine che ritorna ancora, una promessa o un inganno?: «Guarda! I fuochi si aprono / I pagani combattono per un pugno di cenere. / Domani ripartirò con la mia nave. / Sono sepolti, i miei amici. / Sotto gli alberi continuano i corpi il loro cammino./ La loro anima è una moltitudine di foglie / mosse dal vento».
Nooteboom C., Luce ovunque. 2012-1964, traduzione di Fulvio Ferrari, Einaudi, Torino 2016, pp. 210, Euro 14,50.