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Il volo incantato di Gwyneth Lewis

Gwyneth Lewis

Gwyneth-Lewis © Foto di Murdo Macleod

La poesia di Gwyneth Lewis (1959) articola una prossimità intensa al mondo, sospingendo la traccia e l’origine della lingua verso ogni possibilità e campitura. È una ricerca inesauribile che chiede fondamenta e natura, la rivelazione della vertigine, l’essenza e la domanda elementare, il movimento della parola che chiede alla vita di nascere, di aderirvi, di compiere l’indicato percorso di una scelta compiuta e inequivocabile che intende raggiungere la mente del lettore, come scorcio e come gradazione.

Nata a Cardiff, nel Galles, dopo aver frequentato la scuola bilingue di Pontypridd e aver studiato Anglistica a Cambridge, Harvard e alla Columbia University, è stata giornalista a New York e giornalista televisiva in Gran Bretagna. Ha ottenuto innumerevoli premi e riconoscimenti, tra cui un Eric Gregory Award nel 1988. È membro della Royal Society of Literature, poi membro della Nesta e della Welsh Academy, oltre che membro onorario dell’università di Cardiff.

La pubblicazione de L’albero dei passeri, raccolta del 2011, pubblicata ora da Elliot, con la cura sapiente di Paola Del Zoppo, dopo l’antologia Ventriloqua della distanza, edita da Moby Dick nel 2001 e L’assassino della lingua, per Del Vecchio nel 2007, riporta di nuovo alla luce il docile ispessimento linguistico di Gwyneth Lewis, la sua sottile percettività e la sua capacità continua di osservazione, attraverso l’originaria e stravagante pienezza del suo gesto, che diviene dono del linguaggio e compiuta transizione idiomatica, e, come scrive Paola Del Zoppo:

«interconnessioni e inclusioni, curiosità; la voglia di giocare con le lingue e linguaggi, per evidenziare che sono parte di un’unica poesia; una voce poetica che si dichiara, nasconde e camuffa e talvolta si identifica contemporaneamente con il destinatario, ma soprattutto il “divertimento” sono tutte caratteristiche della poesia di Gwyneth Lewis, riconoscibili a vari livelli e in vari sviluppi sia nelle numerose raccolte di versi, sia nei libretti, nelle narrazioni e persino nella sua messa in scena di Clytemnestra» (Paola Del Zoppo, p.8).

Continua poi la studiosa:

«L’interesse e l’intreccio con i linguaggi e le tematiche delle scienze, neurologiche, biologiche, biomolecolari, chimiche, astronomiche e anche mediche, intessute con i linguaggi settoriali di micro culture letterarie e socioculturali, quali possono essere, appunto, il linguaggio della fantascienza, del poliziesco o spy story, della tragedia, o anche terminologie delle arti domestiche o della religione, rende profondità a un quadro poetico dai tratti chiari. Non si tratta mai, come precisa la poetessa, di semplice “esibizionismo di vocabolario”, bensì dell’estrema tensione a rivelare la poesia come sostrato e possibile sviluppo di ogni attività umana, e soprattutto come possibilità di riconnettere le esperienze, di ritrovare un’unità trascurata e spesso banalizzata nella monotonia o nella forzata singolarità di un’esistenza» (p.9).

La precipua adesione al reale e alla datità pura, il processo poetico che sagoma e ricrea la fodera del mondo, l’utilizzo di ogni possibile tessitura lessicale tentano una riconciliazione possibile e autentica con il confine che tocca l’essere e con l’essenziale e capillare tensione dello sguardo, che unisce e ricongiunge l’identità gallese alla comunicatività inglese (attraverso un processo di “tradimento” della propria lingua madre e il silentium tremens), non solo come equilibrio materico o allusivo, bensì perforando i campi semantici e il discorso, i passaggi metaforici e le traslazioni sdoppiate, inseguendo la fertilità dell’immaginazione che permane nelle dimensioni parallele e oniriche, nella memoria e nel fatto,“stando” nel reale e nel suo spazio di incontro, come quando l’oro volteggia tra le canne: «Che tu possa essere guidato ad ogni passeggiata / Da un vago uccello che ti vola / Davanti di un ramo, e ti eccita / E ti stuzzica, e tu e lui. È forse / Un supercilium, un’epaulette? / Il tuo desiderio di un nome cresce. / Fringuello? Forapaglie? È l’oro / Che volteggia tra le canne. / Sei in buone mani. Taci e seguilo» (Piccole Giobbe bruno piumato).

La trasparenza, allora, legata alla chiarità, ancor prima che alla chiarezza, si mette al servizio del linguaggio e del suo scavo («[…] Una scheggia / È ancora lì. Scava. Se fossi una zanzara / Addormenterei la sua cute novizia / Prima di ogni colpo»).

Poiché la poesia chiede allo scenario del reale il suo intero nutrimento e il suo grido non negoziabile («Syrinx, logos, piuma, un grido»), l’irruenza originaria e ribelle delle cose attratte magneticamente come un mormorio («Mi considero libera, / Ribelle. Non ci sto! / Mi prendono / In un filo di fumo / Senza fuoco, un’attrazione / Magnetica. Ronzano d’elettricità. / Ci fermiamo su un albero / Sanguinante di bacche»), può risolversi e sciogliersi in una vitalità ritmica che compone il fondale degli occhi e la sua afasia rigattiera, come scrisse in L’assassino della lingua: «[..] Qualcuno ha tagliato il filo / tra le parole e le cose cui si uniscono, / così la mia mente è una rigattiera di dove sono stato. / Non saprò mai cosa intendo davvero».

L’albero dei passeri, quindi, attinge alla totale visione ornitologica e al suo grandangolo, creando uno spazio di nido e di gemmazione spontanea che attraversa il seme figurativo del verso, fondendo la vaghezza all’esattezza, la determinatezza all’enigma, scoperchiando poi l’infinita varietà ornitologica, la percezione dell’ombra e la floridezza della mente: «Il tordo dei boschi canta / in duetto da solo, due / Toni distinti, e il singolo grido / Del frustino dell’ovest – due creature / E fra loro il nulla, anche se sai la storia / In piedi a Point Sublime, in ascolto: / “Uno. Siamo uno? Siamo. Uno» (Ornitologia).

La figuralità e la creaturalità poetica di Gwyneth Lewis sono un’attitudine e un’abitudine contemplativa che attingono all’angolato spostamento di ascolto e visione. L’enumeratio ornitologica che concreta la scena è il magma sincero della sua attesa guardinga in procinto di registrare sonorità e passi svelti, appuntando la limpidità, la visitazione e la rivelazione, come segno di passaggio inconsumabile:  «Avevo un albero / Pieno di nidi di passeri, / Era la mia voliera. / Ho accolto un merlo, / Ed è stato un errore. / Anche se una nuova melodia / Ha visitato l’albero dei passeri. / Immagina / Ho ancora dei merli? Se ne sono andati / Ad uccidere altrove. / Niente più melodie, niente / Musica. Sì, uccelli immaginari, / Ma a cosa servono? / Ecco, si ricomincia / Dalle spine. Un invito».

Paola Del Zoppo commenta:

«L’albero è un ricordo, simbolo della rielaborazione di un rimosso, forte di un senso di colpa per aver rotto un equilibrio di delicata serenità alla ricerca di una bellezza più esplicita, ma meno autentica, che si rivela addirittura mortale. La colpa di aver ascoltato un suono troppo limpido e affascinante, che ha sovrastato un più sommesso sottofondo poetico, che si sarebbe rivelato più essenziale. Come spesso nella poesia della Lewis, alla descrizione dell’esperienza dolorosa segue una forte dichiarazione di energia vitale» (p.11).

Questa inclinazione vitale fa emergere il suo sostrato di richiami e nominazioni esterne, di farciture ricolme, che, come è accaduto nelle egrette bianche di Derek Walcott, «si sospendono nel loro candore e nello sfacciato biancore» e «proclamano un’esuberanza che dispone il tracciato dell’io» (Andrea Galgano): «Vedere te è un egretta, / No, un rosso, alto nibbio / Su una corrente, / Tenerti la mano / È un passo sereno. / Credo che un cuculo abbia deposto / Un uovo di oscurità nella mia testa. / Le parole sono migrate, / E ho scordato il richiamo. / Ma ancora dico: / Guarda lì il piviere, / O forse la pavoncella. Appunto».

Il mondo di Gwyneth Lewis crea e si ricrea percettivamente, non solo nella limpidezza della scrittura e nel silenzio fondato, ma anche nella conoscibilità ariosa del suo proto-linguaggio che elimina ogni decorazione celebrativa per farsi strumento migratorio di una dinamica affettiva.

È l’ospitale e aereo territorio della sua composizione che visita i voli liberi, che afferma e non chiude il cerchio dell’esistente, vissuto e promanato in tutto il suo potere reale e arguzia accesa: «Una cincia blu picchia col becco la finestra / Dei tuoi occhi. Si rompe e l’uccello esplode / In stelle e lampi nelle vene della tua retina / Dal nervo ottico fino al cervello, / Come un’idea. Dolorosa, ma io non vorrei / Che il mio migratore se ne andasse», o ancora come il trascendente occhio selvaggio che guarda il suo essere «nell’indistinto dell’iridescenza»

La bellezza indefinibile si accompagna alla disposizione memoriale. Come avviene all’elegiaca memoria di sua zia Megan, in L’Allevatrice di uccelli, la sperimentazione una memoria inalienabile che si connette alle variazioni prolungate della natura (l’inverno e i cirri di neve sul bosco) e a un presente che si trasforma in continuazione, indissolubilmente legato al passato prima della Guerra, quando la zia era “passero”, ed evocando, come ha scritto Carol Rumens, «l’ultima lotta dura per  respirare» e l’alfabeto dei messaggi come lettere rarefatte e lontane: «Inverno pieno, stagione per vedere / Tra tempo e spazio. Prima della Guerra, / Eri “passero”, ora nel tuo respiro / Sento che, sospiri d’oboe. / In alto volano via anche loro. / Per ogni uccello una lettera che ha senso / Solo per un attimo, poi niente. / Cirri di neve sul bosco. / Fiaccato dal ghiaccio il battito del ruscello rallenta».

Nelle strofe successive, il senso di perdita e della vita come perdita costituiscono il tema portante della regressiva struttura poetica, in cui la vertigine, che accenna persino all’infinitamente piccolo, diventa dimensione precisa dell’esistenza, come la “sfilata di moda” di un junco occhi scuri che prelude alla litania del desiderio, ultimo e consacrato: «Quando muoio / Vorrei sentire uccelli che battono / Alla mia finestra, sentire le luci / Dei piccoli stormi che mangiano. Vorrei / Meritare quella litania: / Picchio, passero, fringuello».

Lo stesso avvenimento di questa visione è un tentativo di ricercare e di ricreare uno spazio aperto alla contemplazione e al ricordo rammendato, in un simbolismo denso di profondità e di significato, vissuto non solo attraverso la vibrata fusione della componente visiva e uditiva (il corps de ballet dei tacchini alla ripetizione entrechat, entrechat della piroetta), ma anche nella repentina chiusura scenica sulla vita di una persona cara: «è come se l’antropomorfismo delle metafore teatrali divenisse uno spostamento intenzionale delle emozioni, dal terribile fatto della mortalità. O forse, anche, queste linee iscrivessero nella mente un fantasioso incanto, condiviso dal narratore e da sua zia mentre entrambe osservavano dispiegarsi il pasto giornaliero degli uccelli» (Carol Rumens).

L’insondabile voce della natura, lo spazio e il tempo, la vita vissuta «negli occhi dei cardinalis e dei passeri» vengono evocati nella sfera della piumata dissolvenza e dell’allontanamento («ti sentivano come un rendez-vous mancato»), poi la fame «consegna il corpo agli uccelli non semplicemente in pasto e in lascito, ma per una vera e propria compiuta metamorfosi […]» (Paola Del Zoppo, p.12), e, infine, l’immagine evasa degli uccelli che svolazzano mentre sbatte la porta della cucina, marca, in modo permanente, la precaria spazialità dei transiti: «Il tuo corpo, uccelli / Che attendono per alzarsi e scattare / E sbattere per l’ultima volta la porta della cucina» .

La trafittura dipinta dei luoghi, che accentra il vortice vertiginoso del centro della seconda sezione Logos, addensa l’ignoto indicibile (persino in compagnia di Kierkegaard) e la sua grafia leggera di lontananze attraverso lo stupore metaforico che diventa espressione pensabile di una chiamata grammaticale che ha il compito di far affiorare la materia e farci addentrare nel suo pronunciamento: «Un linguaggio in cui il punto sulla i. / è facoltativo va ammirato. Ne vedo / La raffinatezza – la mosca a disposizione, / Il neo cateurizzato. Mi vedo davanti un / ts senza croci (non è come la l)», o ancora:

«Ultimo giro alla Chiesa di Costantino Lips, / che aveva sette absidi e tre navate, / davvero inusuale. Come la mappa del corpo / sbilanciata sul cervello: sesso deforme, / collo sottile, membra trascurabili, / punte delle dita a spatola, codice tangibile / di come è la vita. Nel parco di Piazza / Taksim: “Madame, mica sono un cannibale, / voglio solo inviarle un kilim / della mia provincia natia”. E come una stupida io / l’ho lasciato fare. Non ci sono lettere mute / in turco, ed era così affabile… / I miei giri, noterete, non contengono errori, / per perdersi è necessaria una guida» (Passeggiate immaginarie a Istanbul).

Nella terza sezione, Piume, la declinazione metaforica si congiunge al territorio del patchwork, dell’arte della maglia e della tessitura. Qui, scrive Paola Del Zoppo, «l’atto poetico diventa controparte dell’atto creativo per eccellenza, la possibilità di notare la vita, declinato sia come compimento dell’esistenza, sia come causa di malessere se avvertito come imposto e dunque, per “donne senza bambini” come un atto di tradimento, un taglio del filo che congiunge le generazioni» (pp. 13-14).

La voce della realtà, in una visione lieve e grave, allo stesso tempo, permane nella sua affermazione, nel suo sperdimento e nel suo finire, ma la pienezza di Gwyneth Lewis non è sopravvivenza al vuoto, è fiato di pienezza e trapunta folle, stelle spezzate, divertissement («il mondo intero è un flash, è jazz / Ho perso l’attimo, il beat») e forme cucite e ferite («Io ho avuto / Diverse madri e il DNA morale / Si eredita in un lampo, due volte più potente»): «Non avere bambini è non avere rime, / Declinazioni, restare più integra di quanto vorresti / Quando finalmente avrai chiuso / Con il corpo e dovrai restituirlo / Consunto. Ma, se siamo immortali, / Anche chi è senza bambini vive per sempre. / Se le parole sono il pianto di un figlio per la madre assente, / Perché non posso rispondere io che ho tanto latte da dare?» (Trapunta folle).

La giustapposizione degli elementi si appropria della filigrana generazionale e domestica e della profondità “astrale” che sfiora figure care, i conflitti materni, le mancanze, le memorie di infanzia e il ritmo segnato dal tempo, come il time-lapse di una rosa che sfiorisce: «Sono una porta chiusa, una strada senza uscita, / Il fondo di una valle». Sono cicatrici e urgenze luminose ad affacciarsi, a recare l’accecato lampo delle schegge: «Sono il bimbo che gioca col vetro, / Un puzzle di specchio dai pezzi mancanti. / Cicatrici, qui, d’ uno sguardi / Al mio giovane io disperato e alle schegge / Che inviano un urgente, luminoso, / SOS che ora mi acceca».

La poesia che rammaglia il mondo snoda i suoi attimi di composizione riequilibrando e lavorando lo sguardo sulle cose, le ansie, le cadute e il dolore antico («”Voglio quel dolore ai polsi / E alle nocche, il matrilineare, onesto / Lavoro, legame di generazioni dalle / Dita artritiche da Mam-gu fino a me»), le impazienze, gli intrecci e i puzzle sonori che legano tutto in un istante universale e in un riparo di giorni, quando l’aria dell’anima avvolge come un velo: «Tutto ha inizio con un nodo singolo / Ai ferri. Parola e penna. Stringi un giro / Nel nulla. Guarda. Vai avanti, ripeti / La procedura finché non hai una riga / su cui puoi lavorare./ Uno schema fatto di sole relazioni».

L’aria dell’anima, allora, è la sospensione aurorale e vocale che avverte la sua peculiare missione e il suo apicale spostamento poetico, come passaggio rasente di un grido-frattale: «Il mio inizia con un fiocco di pioggia / Su ferri circolari, così che le maniche, / Consumate, possano essere sostituite / Come i cori / […] Devo iniziare subito. / Fa fresco e quando scende la notte / Atterrita, ascolto i lievi fruscii: / Le falene del tempo cariche di polline» (Maglione commemorativo).

La voce rappresenta il grido espanso e inesauribile di una ricongiunta comunicazione che destina ogni sguardo al nuovo scenario ebbro della scrittura («Il compito della foglia nuova è avere idee / Oltre se stessa»), alla vita che cade come semi da un cielo benevolo, al buio splendore delle attese, e all’avviso di amore riportato in vita dopo la morte, come accade ad Orfeo: «Ora che sei con me, tornato dai morti / (Non mi sono girata! Non mi sono / girata!) sto per impazzire. / Niente dici tu. Fuori / Le arance maturano al freddo / Pronte per la marmellata amara», o come in Preghiera all’orizzonte, dove il ricongiungimento futuro con l’amato annulla le barriere del tempo, senza alcuna recisione o strappo, come una lunga veglia di arrivo su acri di mare scintillante:

«Per prima cosa ti auguro una vista libera. Un luogo in cui andare che si ritragga / Mentre lo raggiungi. Può essere / Sensato, razionale, un filo di benvenuto / Da stringere quando ti senti male. […] E infine, ti chiedo: quando tocchi / L’orizzonte degli eventi da cui la tua luce / Non mi giungerà più e lo spazio, molto curvo, / Ti nasconderà per sempre, di guardarmi arrivare – / Non dovresti scorgermi, ma invece mi vedrai – / I segnali guizzano mentre scivolo / In una flottiglia di navi rituali / Fino al confine della tua singolarità / Su acri di mare scintillante».

In Virus marino, la creazione poetica nasce da una profonda e urgente germinazione di desiderio, in cui la metafora creativa diviene sostrato dell’umano e del vivente, come un’ultima e dura meraviglia che graffia l’acqua: «Essere sparata via dalla terra / E dal suo fumo di legno! Sentire la chiglia / Fredda nella corrente! Vedere l’albero / Graffiare l’acqua come una penna instancabile / Scrive una scia che sfuma! È vero, / Sono rovinata. Neppure la bonaccia potrà / Tenermi più a terra. Nemmeno tu».

Lewis G., L’albero dei passeri, a cura di Paola Del Zoppo, Elliot, Roma 2016, pp. 125, Euro 18,50.

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