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Il respiro di Marco Antonio Campos

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La poesia di Marco Antonio Campos (1949), uno dei più importanti poeti e scrittori messicani, nonché traduttore sopraffino, tra gli altri, di Baudelaire, Rimbaud, Gide, Cardarelli, Ungaretti, Quasimodo, afferma il segno e l’adesione, la possibilità e la musica del verso come appropriazione di terra.

Grazie alla fertile traduzione di Emilio Coco, è possibile leggere, alcuni dei testi, già precedentemente raccolti nei quaderni di poesia Le gemme (Progetto Cultura, 2015) con il titolo Di quel poco di vita, e ora editi da La Vita Felice, con il titolo Non per molto tempo (No para mucho tiempo).

Una poesia radicale e radicata nella storia dell’anima, come egli afferma, attraverso

«una poetica soggettiva, che parla dal cuore del poeta al cuore dei lettori. Ho cercato, come voleva Artaud, di non lasciar passare nei versi troppa letteratura. Volevo che le liriche conversassero con il passato che abbiamo vissuto. La mia poesia è stata, in primo luogo, una lunga cronaca di viaggio: geografica, letteraria, di incontri e abbandoni amorosi, dell’andata e del ritorno di un’infanzia libera…Neruda raccomandava sì di partire, ma di ritornare sempre a casa. […] Le quattro direttive che ho seguito con costanza, sono state: poesie brevi e rigorose; poesie che introducono riflessioni su ciò che ho trascorso; il poème en prose nel quale mi sento a mio agio e, come ha detto un grande poeta messicano, Jaime Sabines, è il tipo di composizione che sembra aver più ritmo nel sangue; e infine poesie come spirali indirizzate al canto…».

L’adesione al reale si compone di una vigile attenzione lineare e di un grido unanime. Essere è aderire al tempo, al luogo, al passaggio, alla tumefazione e allo splendore, fino a protendersi nell’arsi del richiamo. La semplicità dell’essere porta in grembo il lievito dei fondamenti umani, il desiderio e la solitudine, l’amore e la sua ricerca.

Città del Messico, ad esempio, incoronata in un chiarore di buio e creazione, rappresenta il passo adunato degli occhi nel territorio del diavolo, la veglia degli stendardi e l’amore infinitesimo:

«È in questa città, terribile e affascinante insieme, dove gli dèi degli antichi aztechi vagano ancora per le sue strade e nei palazzi del potere, atroci e spietati, incarnandosi negli uomini politici di adesso, che si riempiono le tasche con i cuori della gente torturata e violentata nelle strade del deserto, e nei vari Mida che alimentano la loro ricchezza con la miseria degli altri, dove il poeta ha trascorso la sua infanzia, dove tuttora vive e dove sempre ritorna, dopo ogni suo viaggio nei vari angoli del mondo […]».

Il sentimento del reale si appropria del tratto essenziale, quando al rigore, mai logoro, si accompagna il paradigma di una sotterranea tensione che non è solo brivido di esistenza vissuta, bensì quotidianità alta, che non ama nascondersi, e che dal dettaglio dell’ogni-dove, celebra il dono delle distanze intime, l’orrore e il sole, l’autunno delle piazze e dei firmamenti, la maschera e il coltello e, infine, la propria durezza di figlio.

Comprendere questa illimitatezza significa proseguire nella ferocia incerta del tempo, attraverso il setaccio delle cicatrici e dei luoghi primari dell’essere.

Scrive Emilio Coco:

«Ciò che più commuove e trova più immediata e prolungata rispondenza nei testi di Marco Antonio Campos è il pronto e sensibilissimo aderire di tutta intera la sua vigile interiorità di uomo e di poeta ai richiami palesi e segreti, remoti e presenti della sua terra. E il senso del paese (El país è appunto il titolo di una sua poesia) è presente in tutta la sua opera […]».

La visitazione poetica è una disarmata concessione dell’esterno, che entra come lampo: la poesia e l’angelo, la calligrafia dell’essere, la grande luce e la tenebra smaniosa.

La visita diviene la specie dell’anima, un suo tremito sterminato, come quello sperdimento di melodie intraviste, acqua perduta e infinito delle «finestre cieche in palazzi di oppressione», poiché «le scuole fredde, / le strade grigiastre del mio quartiere a scacchi, il brulicare dei / piccoli negozi, i film di magia, le / intrepide partite d’emozione ebbra di baseball e di calcio, / le ragazze avide e anelanti, le amicizie / come ala e alta marea», diventano l’anima, in quanto «solo quello che si vive, senza mire né propositi letterari / (Pavese dixit), si può trasformare in una poesia -»:

«Giorni chiaroscuri dell’inverno del ’68, la poesia / era un passero che beccava e beccava la foglia e giungeva / con l’inverno freddo sul volto di una giovane in lutto, / la cenere sulla fronte era fuga e avventura, / e io sentivo o presentivo che, salvo sporadici lampi, / la mia vita non sarebbe stata all’altezza delle onde, ma che / avrei amato lo splendido mare, il sole selvaggio, la rondine azzurra, / la poesia e l’angelo, e, certo, diciamo che fu così, / e la poesia spuntò alla mia finestra con il linguaggio / del passero e mi parlò calligrafandomi dal / volto bruno e dal corpo ondulato / della giovane in lutto, e là, al di là, al di là / della riva e delle case esigue, / che sembrano a un metro dal precipitare nel mare, / intravedo oggi le montagne nella nebbia azzurra, / e scrivo una poesia, uguale o simile a quella che scrissi / in quell’inverno monotono, grigio, tristissimo del ’68, / quando il passero entrò dalla finestra a scrivere / – a beccare a beccare – sul mio quaderno a righe / una lieve melodia che ascolto ancora / quando tornano giorni come in quell’inverno / lesivo, fosco, ostile, ma che almeno diede con la sua grande luce / la figura melodiosa della giovane in lutto. Puerto Vallarta, 2012»

Campos esplora il mistero del vivente in ogni spostamento e tremolìo. È nella perdita che egli rintraccia e scava la genesi del vivente, appunto, che crea e ricrea la bellezza dell’esistere. La poesia setaccia la tela umbratile delle cose, tutta la vertigine primordiale del rumore, del rumorio delle onde, dell’aspro volo del pellicano con il contrasto del gabbiano, l’arpeggio delle gonne di donna, come umbratile consistenza ultima e accarezzata e primigenia fonte di vita:

«Perché nei tuoi versi trovo spesso / rondini e colombe», mi dice Paulina / questa mattina di novembre grigio  / nel Viale centrale – / e / all’istante / vola / uno / stormo / di colombe. / «Non so, rispondo, forse perché l’aria dello stormo / mi lascia qualcosa, qualcosa che pure va via o fugge, / e fa poi cadere, cadere nell’anima come / goccia scura un sentimento di carenza o perdita.» / E Paulina guarda nel mio sguardo lo stormo di colombe / che va via o fugge sopra i pioppi». (Uccelli).

L’ultima lettera è sempre la prima. È la prima volta dell’avvenimento, la prima volta dell’amore donato e ricevuto, la scrittura delle lettere dai propri frammenti «bevendomi millimetro a millimetro la brunezza del suo corpo / come se fosse prima, senza sapere che l’inchiostro si cancellava come / il colore dei gerani sul muro di casa sua».

La parola appuntita e luminosa fa risplendere i dettagli delle piogge incessanti, il ritmo delle cattedrali e le case. Campos esamina i particolari, per ricostituirli in una luce più variegata e sconfinata. Il congedo come vita da vivere, l’amore di sbieco, il profilo delle donne che dimenticano. Qui la poesia celebra il suo fondo amato per farsi chiarità di veduta, per farsi contemplazione pura di viaggio. Esso è il presente intessuto che rammaglia ogni oblio. Ecco la sua visione del tempo che precede dal dehors del Caffè Pizarra di Oviedo:

«[…] Alla mia età più non ritmano né rimano troppe cose; / il minimo e il precario che rimane è salutarci, amare di sbieco / e di profilo donne che già si dimenticano di vederti, / la mattina delittuosa che t’incrocia la notte senza alcol. / Ma lor signori, che il denaro fa arrugginire e / muoiono e assassinano per il gusto del Potere: ancora scendo / nel Mediterraneo in cerca del mezzogiorno rovente / e ovunque dico e faccio quel che voglio (se lo voglio), / sono libero nell’addio delle giovani dalle gambe tornitissime, / la poesia tocca il fondo – in lontananza – nell’indaco dell’orizzonte, / dove il volo del passero scende in arancio / o in giallo per abbagliare il punto in cui lo vediamo».

Lo scioglimento esistenziale è il cardine della nascita del reale, la sua origine di ferita come privazione. Torna la furiosa luce dei crepuscoli gialli e indaco, nel ricordo delle sabbie focose di Acapulco ora che la tigre dell’autunno lacera il fogliame o come quando la Zamora di Claudio Rodríguez,

«dagli abiti pietrosi, dimora per vecchiaie / (direbbe Josè Asunción), rinchiusamente cupa, / con le sue viuzze del centro, che / una volta screditasti, ma tardi di sera tardi / le desti un abbraccio di figlio buono», mentre i vecchi leggono in “La Opinión” notizie arrivate dagli anni ’30 «e nella piazza Sagasti beccano e becchettano gli uccelli / che spezzano il midollo dell’angusta via».

Avviene sempre, in Campos una sorta di feriale commistione di dolore asimmetrico e recupero, non già dei detriti che il tempo disfa, rilasciandoli, quanto piuttosto una traccia che dà senso al tutto, come una musica di scena che da dietro le quinte offre e presenta la sua anima ultima e raschiata, oltre ogni volo di uccelli («Mi guardo fuori dai fatti grandi / che anelavo di fare, ma che / non furono né saranno / Solo e la mia anima, con l’anima spezzata, / chiedo un’anima in prestito») e giustizia rattrappita dal sangue nella nebbia azzurra di Granada («Volli la giustizia, l’anelai, / ma spesso / mi arrivò in faccia / un fiotto / di / sangue»).

Come questo testo, scritto a Salamanca nel 2010:

«L’orologio di Piazza Maggiore suona nell’ora in cui non venni. / Chi mi fece? Il caso o Dio? / Mi feci io stesso? / Troppi anni di dolore e di angoscia compensano / i giardini repentini nell’anno che non vidi? / Chi raccolse del mio cervello il vetro / nel canale della strada per farmi una finestra? / Odiai l’odio, amai il bene, cercai di farlo, levigai l’amicizia, / accettai di avere nemici, e la colpa / mi seguì oltre gli alberi senza allontanarmi. / Aprile fu azzurro e nessuno mi ha aspettato questo maggio. / Cani conducono i padroni fuori delle porte. / Passeri sono punti verdi nell’aria immobile.
«Da non molto ho capito» – dico a Carmen – / «che la vecchiaia è la morte a metà morte.
Mi rattristo davanti al molto o / al poco che ho vissuto, senza sapere come è stato
quel molto o poco. Metafisicamente o effettivamente / sono rimasto a un passo dalla meta. / Ho detto questo? L’ho detto io? L’ho detto veramente?» (Ho detto questo?).

I passaggi di Campos hanno venatura di accenno vissuto. Sono domanda lucida e rappresentazione compiuta, mete e frontiere che si riscattano dalla tenerezza dell’oggettivazione, ricavata dal profumo accidentato e nutrito che graffia l’aria. Una frantumazione impossibile senza premure:

«Dalla finestra del treno vedo il fiume / e il fiume mi allontana, si riduce, è fumo / Salici d’acqua, eucalipti assetati di sete, / file di pini per ombreggiare l’altura / Paese dopo paese guardo case / dalle forme che non hanno forma / Mucche e asini pascolano nella pianura / come se fosse la terzultima erba / Perché all’ultimo anno / tornano gli amori passati / come / foglie / cadute / e fanno appassire animamente / il cuore che duole? / […] Perché i treni vanno sulla strada ferrata, / – stabilmente, direttamente -, e noi / solo nel dedalo dell’addio e del mai e del no? […] (Nel treno da Rabat a Fez)

Dentro la realtà, nel suo centro vitale e propulsivo avviene sempre una mancanza, un’arcata che lascia cieco il cielo, un’assenza di guida nei dedali, ma, allo stesso tempo, la richiesta di un miracolo, come nella piazza di Tangeri, esiguo e intenso splendore, oppure a Bogotà, dove la nebbia sbiadisce le strade e il tendone di nuvole ombreggia le residenze:

«Ma se non fosse stato, / se il mare non fosse stato azzurro oggi,  / se la linea della costa spagnola non la coprissero le nubi, / se in te ci fosse stato il tocco di follia (direbbe la Yourcenar) / per fare la Grande Opera, / se la parola Destino non fosse stata come una corda al collo, / se i viaggi non sembrassero un sogno che ignori se / vivesti come quel gabbiano che vedi e scompare, / eppure, eppure ti diresti che la vita fu bella malgrado tutto, / e malgrado tutto dovresti scrivere che / il vaso di argilla, doppia ansa e becco, / andò in pezzi quasi tutto, ma che ancora dalla finestra / della mattina azzurra osservi negli aranceti di ieri / esigui ma intensi splendori, e che alla fine oggi, / in questa piazza breve di Tangeri, hai di fronte il / mare Mediterraneo e la linea scura della / costa spagnola, e perciò, solo perciò, per il momento, / ti va di credere che la vita è stata fatta per te. Per il momento». (In una piazza di Tangeri).

All’interno di questo costipato splendore rifulge sempre un punto minimo ineliminabile, nonostante l’io emigrato e sotto assedio: il tremore rilucente delle foglie degli alberi al vento e al sole di giugno, che raccolgono tutte le lontananze nomadi e intatte.

I luoghi di Campos sono attimi di cuore non estinto. C’è esattezza e, allo stesso tempo, una deriva lucente di epistole in volo, quando si ama fino a dissanguarsi, quando nel canto spezzato del passero in un caffè di Miraflores, la chiamata diviene taglio e canto nell’erba calpestata.

C’è anche la tradizione nel trapasso dei secoli: la tomba di P. B. Shelley, poi gli occhi che fuggono nelle orme dell’infanzia, come un crepuscolo di bellezza furiosa, Pessoa e il limite dell’orizzonte, perduto e confuso col sole, fino alla cima diMönschberg:

«[…] Ma ascoltate ciò che il merlo non ode. Ho lottato / contro tutto, contro il Male e il Bene, contro / il cretino e il saggio, contro me stesso. / I demoni furiosi mi spezzarono / le vertebre cervicali, ma oh Dio, ho proseguito. / Nelle poesie, con vetri polverizzati, ho fatto / un lavoro di cristalleria, e sì, almeno una volta, / quella volta almeno, ah quant’è lontana l’adolescenza, / com’è dura la gioventù alcuni anni. / È settimana di martedì con i mesi che riunisco / Sempre ho viaggiato a una parte che facevo mia, che era mia, / ma fuggendo da essa sapevo che non lo era stata. / Non hanno smesso di crescere le betulle, ma / quelle che vedevo spesso, di quelle che vedevo spesso solo odo la canzone del merlo e il taglio alla radice».

È un mondo in dileguo ma che vive nella narrazione dell’essere, senza sublimazione. Accenno, vita e ossequio alle cose diventano la lettera che resiste, rivoluziona, recupera carezze genitoriali.

Tutto si rivolge al passato-presente, come una lunga intersecazione di impasti e retroterra scarni. Un brandello luminoso che scandaglia una lunga e interminabile coltre materica. La poesia nasce da questo evento riconosciuto e rinato che lascia intravedere una comunione congiunta sulla grande strada, sebbene la via della perdita, dello sfumato detrito del tempo affermi la sua insidia.

L’affresco di Campos recupera il tempo di viaggio e di ricongiunzione. Il suo approdo di perdita e gioia conosce il passo lieve degli anni perché vive. Distacco e vita in una domanda incrinata:

«E come non farlo, come non essere / se la strada era, come non andare a piedi se il mio passo era di vento, se il vivere non sapeva / dell’ago della bilancia, andare a piedi – diceva Thoreau – / è il modo per arrivare più lontano, e io, e io / dai venti ai trent’anni volevo conoscere tutto, conoscevo tutto – figure italiane ritmate / alla più alta pittura, cattedrali senza Dio, / strade misurate secondo l’ombra o la luce, piazze / della grandezza di un ago, conventi coloniali / dove il diavolo faceva piani con la morte, / rive malinconiche dell’Arno, della Senna e del Danubio, / lunghi moli del mare Ionio sulla punta delle dita –, / conoscevo il passo lieve degli anni, il peso dei danni, / scandivo l’endecasillabo e il mio stesso modo di avvistare: / là, a occhio d’uccello, scorgo Barcellona grigia / nell’Anno Nuovo, l’Andalusia con donne così belle / che Dio si sorprese della sua creazione, Cáceres / perfettamente posta nella pietra medievale, / Salamanca di pomeriggio nel domani / nel molteplice ieri che già vi diceva, / Avila con l’abito di Teresa rasente il prato, Segovia con il ricordo fresco / di Martha esile nella grande fontana, Madrid avvizzita / dall’aria provinciale e con lo stivale del despota / sul volto che faceva la gioia di molti, / e io ero veloce e forte, malinconico e violento, / e mi cambiavo, l’ho detto già, caspita, mi
cambiavo la maschera secondo il teatro, / mi ripetevo la frase di Eliot: «Non a presto, ma avanti, viaggiatori». / Ma nei trenta e nei quaranta, col / passare degli anni, col peso dei danni, / in effetti, sì, anche così vedevo tutto, / udivo tutto, volevo fare tutto mio: si ascolti il Mediterraneo ai piedi del Capo Sounion, / il passero sotto il cipresso guardando il mare a Sami, / l’odore del gelsomino o del geranio nella piccola Karlóvassi / quell’estate quando Ritsos vedeva vicina la fine, / quando Elytis, nella sua casa di Atene vedeva vicina la fine, castelli e fiumi della Provenza, colline dolcissime / dell’Italia, oh, quella verde Austria / – biblioteca, bosco, eremo, vetrina – con / persone amiche che mi diedero la mano in un paese / così piccolamente grande, così aspro e / oscuramente bello, insomma, me ne andavo, l’ho già detto, me ne andavo / con la maschera logorata dalla distorsione dei fatti, / dalla fatuità caduta a terra dal Miserere al / De Profundis, me ne andavo, me ne andavo dicendomi / la frase di Eliot: «Non a presto, ma avanti, viaggiatori». / Ma ancora una volta il passare degli anni, il peso dei / danni: i cinquanta e i sessanta, la furia / del rogo nel furioso petto, / credendo di essere di nuovo totalmente / quello dai piedi di vento, il velocissimo cavallo / che si portava in sella l’America Latina, / ma il passo taceva, il passo si fermava, / e io perduto il passo, ahi, lento mi vedevo: / la cenere sulla fronte, la nave del cuore / colata a picco, il diapason pianto in la, / il trucco sporco sulla faccia del pagliaccio, / che, dolente, con le armi scheggiate, / si presenta nel circolo del circo e butta / le maschere con rabbia perché più non servono / a nascondere niente né a ingannare nessuno. / Andare avanti?, sì. Dire parole come allora, / una volta o tempo fa?, sì, Valse la pena / la vita?, sì. Mi sento orgoglioso di aver visto e / viaggiato come ho fatto?, sì. Ma almeno, / almeno, rispondetemi a due cose: / Dove rimase quello che percorsi? Come sapere se il vissuto fu?» (Sulla grande strada).

La sua lapide nell’aria è un lascito elementare che ricorda l’acqua keatsiana. Essere aria e dell’aria per abbracciare l’essere, come un lascito di ferita e meraviglia. Il cuore forestiero e nomade, e la sua vita, sono la più grande espressione radicale e ultima:

«Ho già visto. Ho già vissuto troppo. Il mio lascito? Lascio quel poco di bello che ho fatto e quel poco di buono che ho dato. Di meno e di più, io di più, mi sono sentito ovunque forestiero, e per vivere, per fingere che vivevo, più presto che tardi ho intrapreso l’avventura o la fuga. Chi fui? Potei essere uno qualunque. Il mio nome? Potè essere dell’aria. Potè essere l’aria».

CAMPOS M. A. , Non per molto tempo. No para mucho tiempo, La Vita Felice, Milano 2016, pp. 132, Euro 14.

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