Con L’indulgenza del cielo, edito da Osanna, a cura e con postfazione di Franco Vitelli, Mario Trufelli ritorna alla poesia dopo circa trent’anni. Verrebbe dire, emerge la sua poesia, ancora presente, in tutta la freschezza profonda. Il silenzio si trasforma in attesa, la sillaba in materia, il segno in discorso. E di segni si compone tutto il suo gesto vivente, la cromatura intatta della sua generosa disposizione, l’istante raccolto e concesso in tutta la sua densità.
In apertura della sezione, I cavilli della memoria, il preludio oggettuale (la macchina da scrivere e il sillabario) diventa dura cervice di gioia e dolore, come se il guado dell’essere, la sua asperità superi ogni afasia, concedendo l’agguato della parola e lo studio proemiale dei ricordi:
«Anni nell’ombra / ma quasi in agguato / Finalmente sei uscita dal silenzio. / Il tuo ticchettio / riempie lo studio dei ricordi. / Un diluvio di reportage / sulle guerre, sul destino / degli uomini indifesi; / eri sempre sotto gli occhi / di chi t’interrogava / sulla tastiera rossa amaranto. / Sei tornata / riprendi a scrivere / a raccontare pensieri, e favole di poesia».
E poi il sillabario, reperto impreciso di fanciullezza e memoria: «Ho cose dappertutto, mi assiste / la storia: posso rinunciare / alla memoria». L’emersione oggettuale, dunque, è un repertorio in cui la bellezza delle cose, la loro presenza è segno di altro. La poesia di Trufelli non ha vuoto. Pur nell’assenza raccontata, riporta l’essere e l’obbedienza alla realtà come incanto, innanzitutto, e poi come indugio e sforzo di trame: «la puntura di una siepe / che si è fatta cicatrice».
La precisione dei dettagli e delle istantanee non si espone a un fatalismo, bensì a una percezione nitida, alla gioia epifenomenica del passato. L’indulgenza del cielo è un apostrofo di linee tra i cavilli della memoria, a volte in esilio o rimarginati «nel farneticare delle attese», a volte gioiosi nel sogno: «Luna crescente, mezzaluna, luna / indifferente. Il vento annuncia una voce / ma è già passata / tra i cavilli della memoria. / A mani aperte applaudo / la luna piena, mi risponde l’eco / l’indulgenza del cielo».
O vivono lo splendore dell’acacia che assaggiava la primavera e la quercia che sa vivere di solitudine. O ancora quelle cose perse, ritrovate e poi svanite nel sogno, inseguite come rabdomanti che amano che la mente si popoli, si faccia eco di bellezza, vivano tra spazi celesti, diventino ombra e grido veggente.
Ridisegnare il passato non è affrancarsi in un nostos di illusione e mancanza di vita, è annunciare la visione di tempo irrinunciabile, dove la vita, quella stessa vita, perseguita a mani nude, nei contrasti, nei bisbigli e nei gridi lascia la sua veglia, il sorriso sfiorato, la strada dell’addio che non ammette agnizioni: «La tua pazienza / diventava delirio / nel delirio dei temporali / hai vissuto / il silenzio dell’esilio pastorale. / Altri tempi! / Parole di commiato. / In lontananza un cane abbaia. / Tu gridi il suo nome / ma il cane che abbaia / non ti riconosce».
La poesia di Trufelli, dunque, è un concerto luminescente di ombre e sospensione, gaudio randagio e amore infinito per l’idillio delle cose, per la creaturalità, per le figure per le profane sensazioni peregrine, come avviene per le città amate, le scale di Potenza «un continuo dissidio / tra cielo e terra» e Matera e le sue grotte straniate.
Così si aprono gli orizzonti infiniti del figlio mai nato, amato e cresciuto, il volto della madre sposa che risplende, la mitologia di Rocco Scotellaro e la sua rete di ombre, Paolo Albano e lo sfoggio di sapienza, Pasolini, figlio del dubbio, Franco Palumbo e il sogno, Luigi Guerricchio e l’eco sospeso delle grotte, Carlo Levi, racchiuso in mito e in malvarosa, poi ancora il tumulto dei millenni nello studio di Dinu Adamesteanu e i grovigli d’ombra discreta di Rocco Mazzarone, fino ai fuochi fatui di Sinisgalli.
Vi è una esilità di orizzonti che poi si dilata in un incendio di ferialità vitale, in una sproporzione che prima si aggroviglia poi si distende dilagando. Il pensiero che si fa gesto, le figure care, il canto degli uccelli come sibili che riportano la lontananza a farsi presente in dono, i volti e i paesi come colpi d’anima, precari e annuncianti riportano la propria età vissuta nella libertà a un entusiasmo mai ritirato verso una salda maturità.
L’avventura della poesia si ferma in momenti irrinunciabili: l’attesa, la memoria, la visione, la vasta maternità e il dono commosso al segreto del mondo, attraverso le sue fratture e i suoi attimi di esilio, lanciati in una vitale frenesia di cieli aperti.
Trufelli compone la sua intima ierofania. Uno scrigno di ricordi da concedere, un amore immenso e solenne da sillabare, anche nella mancanza e nel dolore, ma fiero di una purezza di sguardo che diviene prospettiva brillante ed estrema di una fondante metafisica di affetti, come un nuotatore solitario: «Nuota ai confini dell’estate / lo inseguono i gabbiani. / La sua superbia / si fa spettacolo. / Alla fine del percorso / tra cielo e mare / in solitudine, / quando l’universo tace / nello splendore dell’alba, / frena l’ansia dell’arrivo. / Nuota a bocca aperta / lo baciano i pesci».