Tenevano gli strozzini in casa perchè non potevano neppure mangiare. Un’abitazione tugurio dove vivevano più o meno una decina di persone. Varia umanità. Pure qualche neonato. Tutti stipati come mobili vecchi. Sporchi come l’acqua che scende nei canali di scolo. Le unghie delle mani nere come il fango più lurido. I capelli nerissimi sempre risplendenti di luce propria. D’inverno il freddo entrava nelle ossa e li portava tutti allo sfinimento. D’estate il sudore, i tavani e l’afa li facevano diventare africani assetati. Uomini delle foreste alla ricerca di una preda da sbranare. Eternamente feriti a morte. Conoscevo qualcuno di loro perchè aveva la mia stessa età e giocavamo a pallone insieme. Ora, se mi vedono per strada, non mi riconoscono neppure. Pesano al massimo 50 grammi a testa. Salgono e scendono dai pullman a sfilare portafogli e collanine. Cellulari e borselli. Devono comprare la roba e per questo non guardano in faccia a nessuno. Non si fermano di fronte a nulla. Nei loro occhi non si legge più niente. Non vedo più l’ingenuità di quando mi abbracciavano dopo un goal o un rigore parato. Sono occhi grandi, belli. Segnati da anni di fame. Ora hanno la fissità e il colore tragico di un diamante che si sta consumando. Quando purtroppo a breve non ci saranno più, perchè è questo il loro destino, qualcun altro prenderà il loro posto. Una specie di catena di montaggio dove si costruiscono macchine che sono da decenni sempre le stesse. Macchine non a benzina, ma a sangue umano. Di una qualità scura. Densa. Ricordo una domenica di novembre. Secoli fa. Avevamo comprato le botte per festeggiare la vittoria del Napoli. Il filo rosso lungo e qualche minerva. Ascoltavamo la partita alla radio e c’erano anche loro. Il Napoli perse 5-1. Ma non ci rattristammo. Prendemmo l’accendino e cominciammo a sparare. L’aria si impregnò di zolfo. Eravamo contenti lo stesso.