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Sette anime

 SETTE ANIME di GABRIELE MUCCINO; USA, 08.

Ben è in cerca di sette persone da aiutare in modi radicali. Lo fa perché è oppresso da un senso di colpa gravissimo, in seguito ad un grave incidente cui è sopravvissuto. Il regista, pur italiano, è uno dei pochissimi che è integrato nel cinema holywoodiano. Insieme a Will Smith, ha creato un sodalizio creativo  produttivo che è già al secondo titolo, il primo è stato “La ricerca della felicità” (06): tutti e due di grande successo. Subito dichiaro che a me il film è piaciuto. In realtà è un’operazione “furba”. Voglio dire: non so se Muccino abbia interesse ad essere ascritto all’èlite di auteurs che fanno i film per compiacersene; per pochi selezionati spettatori. Credo invece che egli sia un solido e talentoso professionista che fa i film che, fondamentalmente, devono fra ritornare i soldi investiti, possibilmente facendoci profitti. Nel cinema americano, hollywoodiano, non è nemmeno concepibile una diversa modalità. Ed è partendo da queste coordinate, che possiamo riflettere sul film. Esso appartiene ad un genere ben identificato: quello mélò, magari di tipo estremo. Il regista, il produttore e il giovane sceneggiatore, Grant Nieporte, hanno tutti giocato a carte scoperte. Hanno creato un climax di situazioni che, prendendo le mosse dall’insopportabile senso di colpa del protagonista, passando per il progressivo coinvolgimento nella pur intensa storia d’amore con la ragazza cardiopatica, arrivasse al finale che ne facesse accettare le scelte. Queste hanno “rotto” con molta intelligenza l’attesa dell’happy and tradizionale: ma hanno creato un’atmosfera narrativa molto più appassionante. Gli spettatori sono stati spiazzati, perché sono stati guidati in un tour emotivo molto più serrato: magari un filo sopra le righe; ma sostanzialmente valido. Qui si vede il talento collettivo e individuale degli autori, anche se soprattutto del regista: aver portato a compimento un’operazione narrativa difficile, in cui l’espressività è condotta implacabilmente a quel finale. E il fatto che il film piaccia ai pubblici, da questa e d quell’altra parte dell’Atlantico, è la riprova della sua riuscita. Ricordo molti anni fa il film “Love Story” (70): pure fu accusato di essere un filmaccio che faceva presa sul sentimentalismo più bieco, e che incassò. Invece oggi appare un film solidamente fatto, coerente alle premesse poste ed efficace. In “Sette a.” la narrazione è spedita, grazie ad un’attentissima cura nei dettagli fondamentali di tipo realistico, come la cura degli interni, della vita delle singole “anime” da salvare ecc., usati in modo dinamico. Ma è giustamente centrata sull’interpretazione e la potente presenza scenica di Will Smith.

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