La tirannia dei valori
di Carl Schmitt, Adelphi, Milano, pp. 107, euro 5,50.
Nella relazione tenuta a Ebrach nell’autunno del 1959 in occasione di un seminario organizzato dal suo allievo e amico Ernst Forsthoff, Carl Schmitt sottopone a critica serrata la presunta neutralità dei valori, sviluppando un discorso nel quale si combinano, mirabilmente, elementi storiografici e considerazioni teoriche di grande rilievo. Il pensatore tedesco si concentra, infatti, sull’origine della filosofia dei valori, individuandola, alla stregua di Heidegger, nella reazione alla crisi nichilistica della seconda metà del XIX secolo.
Per prendere le distanze dalla scienza, che, basandosi sulla legge di causalità, tendeva sempre più a minacciare la libertà dell’uomo e la sua responsabilità etica e giuridica, la scuola neo-kantiana del Baden – si pensi, in primo luogo, a Windelband e a Rickert – concepisce la filosofia come scienza critica dei valori: il Vero, il Benee il Bello, che rimandano ai tre ambiti della scienza, della morale e dell’arte, analizzati da Kant nelle sue tre Critiche. Ma solo con Nietzsche e poi con Scheler, la filosofia dei valori riesce a imporsi in maniera decisa, informando di sé l’universo culturale tedesco e provocando le risposte acute di notevoli personalità.
La metafisica nietzscheana della volontà di potenza considera, infatti, l’uomo come fondamento inconcusso di ogni cosa, capace di dettare legge a se stesso e a ciò che lo circonda, ponendosi, in questo modo, come fonte inesauribile di verità. Scheler, dal suo canto, punta, agli inizi del ’900, alla costruzione di un’etica materiale dei valori, intesi come fenomeni originari, accessibili a una conoscenza non intellettiva, ma emozionale.
Analizzando la genesi storica di questo nuovo modo di filosofare, teso alla valorizzazione di ogni cosa, perfino del Summum Ens, cioè Dio, Schmitt osserva che si tratta di un fenomeno inquietante, in grado di generare un conflitto perenne, rispetto al quale anche l’atroce stato di natura della filosofia politica di Hobbes, caratterizzato dal bellum omnium contra omnes, assume i caratteri di un vero e proprio idillio. I valori, infatti, non esistono di per se stessi, ma vengono posti da una pluralità di soggetti, che fanno riferimento a visioni del mondo completamente differenti tra loro. Per questa ragione, la peculiarità specifica dei valori non consiste nel loro essere, bensì nella loro validità: essi, cioè, non sono, ma valgono. Per poter valere e affermarsi, devono puntare alla svalutazione di altri valori, prendere il sopravvento su di essi, sottometterli, esercitando, insomma, un potere tirannico. La decostruzione schmittiana mira a mettere in evidenza che il concetto di valore è altamente polemogeno, dal momento che implica esclusività, assolutezza, inasprimento dello scontro ideologico, trasformazione della terra in un inferno in cui si scontrano di continuo valori di segno opposto. Ma non bisogna dimenticare che le finalità di questo pensiero non sono, strettamente, filosofiche, ma, piuttosto, politico-giuridiche. Schmitt, in altre parole, non mira, come Heidegger, al superamento del soggettivismo nichilistico della metafisica occidentale in vista di un discorso sull’Essere. Ciò che gli interessa è la svalutazione del positivismo giuridico di matrice kelseniana, il suo ridimensionamento. Egli, infatti, distingue, come è noto, tre tipi di pensiero giuridico: il pensiero normativistico, che intende il diritto come norma, legge; il pensiero dell’ordinamento concreto, che considera il diritto come struttura concreta, istituzione; e il pensiero decisionistico, che interpreta il diritto come decisione, comando. Se il pensiero decisionistico, tipicamente schmittiano, non poteva essere, per ovvie ragioni, considerato utile per fornire alla Germania, dopo la Seconda Guerra Mondiale, un solido fondamento democratico, tanto meno si poteva pensare di far riferimento al pensiero dell’ordinamento concreto o, ancor meno, a Kelsen, che, secondo Schmitt, presupponendo come date l’autorità della legge e l’obbedienza al suo carattere vincolante, lasciava indifesa la democrazia dagli attacchi del totalitarismo incombente sull’Europa dell’epoca nella sua versione stalinista.