Nel 1988 la vita dello scrittore e poeta Raymond Carver (1938-1988), nativo dell’Oregon, arido luogo del NordOvest, si spense nella sua casa di Port Angels negli Stati Uniti dopo una vita di “caldo sangue e nervi”, proprio come insegnava Cechov, il suo autore per eccellenza. La sua poesia vive di attimi, di impennate precise, di situazioni distinte. Ma è piena e mai disadorna. Viene in mente ciò che disse la moglie Tess Gallagher in una sua commemorazione che è anche il suo epitaffio: “ E hai ottenuto quello che /volevi da questa vita, nonostante tutto?/ Sì./E cos’è che volevi? /Sentirmi chiamare amato, sentirmi amato sulla terra”.
Fin dal 1957 egli ha abbracciato le locuzioni interiori, le ha fatte passaggi di storie, ne ha fatto racconti in versi. Malinconia, angoscia, speranza e disperazione, tutto questo muove il suo percorso che diviene radice di ispirazione artistica e fascino inconsueto:“Lei crolla, nella cabina, piangendo/al telefono. Chiedendo una cosa o due,/e piangendo ancora un po’./Il suo compagno, un tipo anziano in Jeans/ e camicia denim, sta in piedi aspettando/il suo turno per parlare, e piangere./ Lei gli porge il telefono./ Per un minuto stanno insieme/ nella minuscola cabina, con le lacrime di lui/che cadono accanto alle sue.”.
Si è detto che il suo è uno stile minimale. Sarebbe meglio definirlo essenziale e figlio della concisione. In quest’ottica è connaturato alla sua esperienza il verso libero perchè gli permette di esser diretto e improvviso, non cercando la sperimentazione e la cesellatura linguistica.
Come scrive il critico Antonio Spadaro “È difficile ricordare versi particolarmente riusciti e citabili, se isolati dal contesto della poesia carveriana. Dopo la lettura rimangono in mente non parole ma immagini”. Egli pertanto è prima narratore che poeta. Ed ecco che la parola vibra di densità, si fa gesto semplice, proprio come un atomo.
Le storie ascoltate in casa, i fiumi in cui amava andare a pescare, il piacere e la disperazione dell’alcool sono espressione più intima della sua fragilità e della sua esperienza di vita, in cui l’incomunicabilità ha portato alla necessità interiore di posti in-relazione agli oggetti, alla materia prosaica delle cose e alla loro origine nel mondo reale.
La poesia di Carver si concentra su eventi minimi e quotidiani perché sono gli unici che forniscono la sintesi di “niente idee se non nelle cose” e che si nutre di ciò che sta di fronte, del giudizio dell’esperienza di ciò che si vive. Si può peraltro aggiungere che lo sguardo di Carver sul mistero dell’essere è “una questione di vita o di morte”, e non poteva essere diversamente proprio per quell’ardimento che sottende all’evasione nell’auto-testimonianza: “ Mi interessa la poesia che parla di grandi questioni, questioni di vita e di morte, sì, e la questione di come stare al mondo”.
E ancora Carver: “La prossima poesia che scriverò avrà della legna / proprio al centro, legna da ardere così intrisa/ di resina che il mio amico mi lascerà/ i suoi guanti e mi dirà: “Infilati questi/ prima di maneggiare quella roba” (…).”
E’ un legame reciproco quello che si insatura tra lettore e autore nel suo verseggiare, in cui lo status emozionale diventa luogo, stupore in atto e sembra di camminare lungo le rive del Morse Creek, dove il fiume accompagna il dolore dell’incompletezza e dell’ardore e si fonde in un unico canto struggente di attesa e malinconia. Scrive ancora Tess Gallagher: “La fortuna di Raymond Carver è stata non solo quella di provenire dalla sua gente, ma di essere riuscito a portare le loro vite umili e i loro sogni in gran parte irrealizzabili al centro della letteratura mondiale”.