Veronica ha “solo” 26 anni ma ha già fatto la sua bella gavetta sociale. Oltre a essere laureata in scienze dell’educazione con il massimo dei voti, ha alle spalle anni di volontariato in un’associazione che si occupa di minori con sindrome di down, in una cooperativa di donne maltrattate, in un’ONLUS in cui ha insegnato italiano ai migranti. Veronica accetta senza riserve l’incarico del comune. Le vengono date persino più ore delle altre tutor e molte la guardano come se fosse la solita figlia della solita gallina bianca.
Veronica dovrà occuparsi di due o tre ragazzini di etnia rom. In effetti il numero è incerto perché i servizi sociali non sanno di preciso quanti di loro vadano a scuola e quanti vaghino cronicamente per la città. L’importante è che lei, oltre a svolgere i consueti compiti di tutoraggio “a domicilio”, faccia anche da autista per i bambini, andandoli a prendere a scuola e riaccompagnandoli a casa ogni mattina.
Ogni mattina, ogni pomeriggio, ed ogni sera per Veronica il tragitto è fatto di una serie di tappe: andare all’accampamento dove risiedono le famiglie dei bambini, accompagnarli a scuola, andarli a prendere da scuola per riaccompagnarli alle roulotte, tornare al pomeriggio e portarli in un’associazione con un tetto sopra la testa e tavoli su cui poter fare i compiti, infine riaccompagnarli all’accampamento. Peccato che di lì a poco l’accampamento sarà sistematicamente sgombrato e ricostituito in chissà quale periferia della provincia. Però, secondo i servizi sociali del comune, quel campo sarebbe da definirsi <<casa>> e nelle sue mura evidentemente invisibili sarebbe <<possibile effettuare un servizio di tutoraggio a domicilio>>.
Le battaglie della ragazza iniziano qui. Con l’aiuto di un gruppo di padri missionari e di qualche maestra volenterosa, ingaggia una lotta senza quartiere per fare in modo che i bambini vengono accolti a scuola. Sono minori e avrebbero tutto il diritto all’istruzione. Peccato che non la pensino allo stesso modo i presidi delle scuole. <<Quei creaturi sono un problema, signurì>> le rispondono confidenzialmente. Oppure, usando toni più “professionali”: <<I bambini non hanno fissa dimora, per cui non siamo tenuti ad accettarli nel nostro comprensorio scolastico. Provi pure con la scuola X>>. Ma alla scuola X i ragazzini ci sono già stati e qualche mattina fa un comitato di genitori promotori del gruppo “profumi e balocchi” ha pensato bene di munirsi di amuchina e deodorante spray per detergere i banchi dei lindi figlioli, condivisi dai sozzi rom.
Fortunatamente Veronica non sarà sola, ma nemmeno verrà accompagnata dai servizi sociali, che, delle vicende urbane e delle strade extraurbane in cui s’imbatte quotidianamente il “taxi sociale” della ragazza, vogliono sapere il meno possibile.
Gianna è una psicologa. Sta studiando per conseguire una seconda laurea, ma nel frattempo accetta la chiamata comunale. La accetta come una vocazione quando le vien detto che dovrà occuparsi di Nafy, ragazza marocchina schedata come <<avente lievi problemi cognitivi>>. Che significa cognitivi? Gianna è <<una precisa>> e con lei non si scherza sui termini del mestiere. Per lei il cognitivismo è una scuola di pensiero, oltre che di azione professionale: cognitivo è tutto ciò che è legato alla conoscenza ed usare un approccio cognitivo equivale a studiare i processi mentali nel più ampio contesto-vita, con tutte le variabili di memoria, percezione, linguaggio, creatività. Per un cognitivista le nostre azioni sono il frutto di tutto questo messo assieme e molto di più: siamo un mosaico di realtà che modifichiamo giorno dopo giorno con i tasselli dell’ambiente esterno e la buona volontà di fare o disfare ciò che vive attorno a noi.
<<Ha solo dei piccoli problemi con l’uso del computer>>: le assistenti sociali inquadrano così il presunto disturbo cognitivo di Nafy, riportandolo a Gianna come la voce unica di una lista della spesa fin troppo breve.
L’impatto con la piccola è un pugno cognitivo nello stomaco della ragione di Gianna. La ragazza è inchiodata da anni su una sedia a rotelle. La spasticità motoria da cui è affetta non le consente, se non con sforzi pesantissimi, di muovere gli arti superiori. <<Quando Nafy si sforza a scrivere o a parlare non puoi immaginare che si prova…. tristezza, dispiacere, impotenza, rabbia, dolore…. in pratica, quando vado via sono a pezzi>> ci confida un giorno.
Ma per i servizi sociali si trattava di semplici, lievi, banali deficit nel fare ricerche al computer.
Continua…(nella prossima “puntata”)