Guardare a Hopkins (1844-1889), poeta inglese di squisita arditezza compositiva ( basti pensare alla nuova brillantezza del suo ritmo: lo sprung rhythm), quasi sinfonica, significa osservare la potenza dirompente dell’unicità pura e suadente della Bellezza. Innanzitutto è un uomo che compie il salvataggio della poesia dalle tortuose e impervie vie di certo conformismo di età vittoriana (soprattutto il barocchismo di Swinburne o alla soave affabulatoria di Tennyson) e che, intraprendendo questo itinerario porta lo sguardo verso la tenera finitezza delle cose, verso un innalzamento di liberazione dell’animo. La freschezza della realtà, il gusto della realtà, il suo erompersi in mille frammenti che si ricollegano alla carezza del Tutto.
È interessante notare anche l’influenza su alcuni grandi poeti della generazione successiva alla sua da Auden, a Seamus Heaney, senza dimenticare la stessa Sylvia Plath e Dylan Thomas, fino agli elogi di Ezra Pound e T.S.Eliot che fecero di lui l’iniziatore di un nuovo linguaggio.
Ma il suo iter d’ispirazione nasce da una sola domanda: Come salvare la bellezza dallo svanire lontano?
Sembrano riecheggiare i secondi plumbei delle ore (“eunuco del tempo” si definiva) dentro la sua imminente, puramente istintiva risposta. Ma improvvisamente lo sguardo si rivolge a un Tu dentro l’aria fresca del reale, un punto di fuga denso e figurativo: quanto sembra fuggire veloce, finito e disfatto, è invece destinato ad essere avvinto dalla più tenera verità / alla perfezione del suo essere, alla sua giovanile bellezza. La bellezza per Hopkins è una Presenza vermiglia e Screziata, come il titolo di una sua poesia, che comunica il suo farsi e la sua gloria per le cose chiazzate -/ per i cieli d’accoppiati colori come vacca pezzata;/ per i nèi rosa in puntini sulla trota che nuota; per tutte le cose contrarie, originali, impari, strane;/ quel ch’è instabile, lentigginoso (chi sa come?).
La sua giovinezza, il suo luogo che eccede la nostra finitudine, la sua condizione sorgiva che è anche questione carnale, corporale: “Schiena, gomito, e fluido busto /in lui tutto trema allo sciacquio dell’aratro. La guancia rosseggia; riccioli si scrollano o s’imbrigliano, nel vento levati, vetrointrecciati – vento-giglioricci-intrecciati”.
Il mondo è carico della infinita grandezza di Dio, celebrato in una polare diversità. “Vive in fondo alle cose la freschezza più cara”.
Questa è la certezza di Hopkins che, osservando lo struggente margine degli occhi che si fanno esperienze e vita, diventa un wonderer (uno che si stupisce, in altri termini un individuo che conosce), che percepisce il reale come segno, dai dettagli dei venti, dalle grandini, dai suoni fluttuanti del mare, delle forme degli alberi e dalle acque curve e ricurve che inondano le pietre, dalle esili sfumature cromatiche nei tramonti e dagli infiniti giochi delle nuvole che disegnano trame di continuo. Scrive Antonio Spadaro nell’introduzione alla scelta antologica del poeta, pubblicata di recente per la Rizzoli: “L’atto poetico comincia non nella coscienza autistica del poeta, ma nella visione attiva e vibrante del mondo: «è possibile che in certi tempi la bellezza di un albero, la sua forma, un determinato effetto, ecc. mi trasporti nella massima stupefazione», scrive Hopkins in una lettera. Il percorso di un filo illuminato dalla Grazia ha un rapporto diretto con Cristo, giudice estetico di ogni arte umana. Hopkins attraverserà il suo buio dell’anima tra il 1885 e il 1887 (qualche avvisaglia la si è avuta anche nella stesura del suo poemetto “Il Naufragio della Deutschland” di una decina d’anni prima, messa in scena di un naufragio realmente accaduto in cui persero la vita cinque suore francescane), nei quali scriverà i suoi terrible sonnets, recuperati e intatti, solo dopo la sua morte: un percorso di depressione, di acutezza pungente, di innocenza ricolma di dolore: la percezione di un abisso che annichilisce e talvolta si fa fragoroso: Sono fiele, / sono bruciore. Il più fondo segreto di Dio / l’amaro volle che gustassi: il mio gusto ero io. Ma la bellezza non finisce con il suo tramonto, un luogo, uno spiraglio o una fessura d’Eterno incisa dalla Resurrezione: “in un lampo, a uno squillo,/ subito sono quel che è Cristo, poiché lui fu quel che sono, e/ questo poveraccio, scherzo, povero coccio, toppa, legno di zolfanello, diamante immortale, è diamante immortale”.
Scrive Hans Urs von Balthasar (1976): Naufragando in Dio – questo è l’apice della sua poesia – l’uomo non trova più nulla a cui aggrapparsi, neppure più la sua sete, neppure più il premio o il cielo o una qualche proprietà di Dio, poiché al di là di ogni cosa c’è solo Lui(…). Hopkins delinea l’incompiutezza dell’uomo nella sua agognata pienezza, il desiderio che il profumo della vita renda giustizia al suo destino di felicità come un canto di primavera, agli orizzonti degli occhi che penetrano nel fondo dell’essere, nella sua “freschezza più cara”.