Dinanzi all’emergere della realtà, l’uomo vive fremendo di un’urgenza inestirpabile, eppure perennemente viva, ricolma di impeto e del riverbero della bellezza.
Nell’enigma acceso di un significato che le dia senso, spesso espressione di una brutale quotidianità lacerata, sofferta e quindi pienamente umana, si accende l’itinerario verso la pienezza che si insinua splendidamente nelle cose, teneramente imperfetta, che fa vela sui nostri passi.
La poetica dello svedese Pär Lagerkvist, premio Nobel nel 1951, “corda tesa nelle tenebre”, secondo quanto di lui scrisse Andrè Gide, vive ancorata a suggestioni panteistiche che vibrano, che si impongono nel loro dualismo acceso, nel loro eterno ritorno pellegrino tra dubbio e apertura, tra inevitabile domanda di significato e nostalgia (si badi bene non assenza), tra inquietudine e immensità del desiderio.
Nulla muta perché tutto ritorna, la realtà sembra essere sfuggente, ma essa è il sacro luogo in cui le parole accadono, in cui le ondate dell’umana avventura sono arie vibranti che umanizzano, per usare le parole di Rilke, il mondo. (“Sotto le stelle / qui io voglio rimanere, muto/ Qui io voglio deporre la mia fronte. Sacro luogo. / Nessuna parola umana è verità”)
La bellezza che propone Lagerkvist è toccata e compiuta nel suo ferimento e trova la sua sosta dinanzi al rapporto dell’uomo e della donna.
Alla lirica in un moto difforme, fatto di fughe e di consistenti sospensioni, che ne deriva, si apre una sorta di realtà-sogno tra parentesi, senza finalità, ma con un’attesa drammatica: (“Chiudi gli occhi, cara, / che il mondo non vi si specchi, / le cose ci son troppo vicine, /quelle cose che non siamo noi.) oppure (“Felice attesa /di te che verrai, / quando nella tua anima / quell’amore potrà fiorire /che col suo fuoco mi divora. / Felice attesa / di te, di te.).
In questo scontro in moto, l’uomo sembra non avere consistenza, come se non riuscisse a proclamare la libertà del suo io che si annulla, che si perde, ma che sente non impossibile la tensione allocutiva a un “tu”, tensione verso il tutto, nella incoerenza debole di una carnale attrattiva.
(“Tu che esistevi prima dei monti e delle nubi, /prima del mare e dei venti./Tu il cui inizio è prima dell’inizio di ogni cosa / e la cui gioia e dolore sono più antichi delle stelle/ Tu che eternamente giovane vagasti sopra le vie lattee/ e attraverso le grandi tenebre fra di esse(…) non mi dimenticare. /ma come potresti tu ricordarmi, /come potrebbe il mare ricordare la conchiglia / nella quale una volta mormorava.)
L’enorme piccolezza, la fragilità, l’erompere di un’umanità infinitesimale, la persistenza di una domanda di senso, la contingenza, sono lo specchio di Lagerkvist sulla pagina, locus in cui si verifica l’urto dell’esigenza di significato, come egli stesso descrive in Come la nube (“Come la nube, / come la farfalla, / come l’alito lieve su uno specchio. / Fortuito, / mutevole, / svanito in breve istante.”).
Lo smarrimento dell’uomo di fronte all’esistenza, alla terra della sera, si rende evidente nel destino dell’umanità e di una compagnia nascosta, un’amicizia sentita e desiderata (“Uno sconosciuto è mio amico / uno che io non conosco. / Uno sconosciuto lontano lontano. / Per lui il mio cuore è colmo di nostalgia./ perché egli non è presso di me. / Perché egli forse non esiste affatto? / Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? / Che colmi tutta la terra della tua a assenza?).
Ma c’è come un’impazienza di fronte al Mistero, impazienza che va al di là di ogni negazione (“Il dio che non esiste, / è lui che accende le fiamme della mia anima”), come una voce sottile che si alza dalle tenebre di ogni riduzione, dall’abisso del nulla.
La nostalgia si fa grido unanime che domanda, implora e invoca il senso (“Non c’è nessuno che ode la voce/ risonante nelle tenebre; ma perché la voce esiste?), e la realtà è il contesto in cui l’anima vive commossa la sua relazione tragicamente estetica.
L’io appare inconsistente ma non eliminabile, il desiderio incompiuto ma inestirpabile, il pulsare del cuore affranto ma inestinguibile.
Ma tra le linee poetiche del suo afflato, Lagerkvist vive una frattura con la realtà (assenza della rivelazione) ma verso cui si spinge, pur non slanciandosi.
Questa ferita lacerata, per certi versi leopardiana, si dipana tra le pagine commosse dei suoi romanzi, piene di una brina poetica che sembra mettere in superficie un moto lirico, pregnante di una sensibilità profonda, radicata nelle sue terre nordiche, centro vivo di un senso, di un’urgenza forte di significato mai capricciosa, ma così degna che appare un baluginare di “sogno”.
Barabba (il romanzo che gli valse il Nobel) è l’uomo, l’uomo di tutti i tempi, l’uomo di oggi, “è l’umanità tutta intera”, come scrisse Giovanni Papini.
Egli stesso vive di un avvicinamento ma non di una conversione, di un cuore che cerca di mantenere il possesso fiero della sua libertà, aggrappato al suo disegno sull’esistente.
Ma alla fine soggiace anche lui in croce, in un desiderio ancora una volta mai spento, veritiero, che afferma disperatamente qualcosa che non capisce ma che ripete come opposizione alla morte, la destinazione del suo essere libero, ultima e positiva (“A te raccomando l’anima mia”).
Tutta l’opera di Lagerkvist si muove attraverso un mistero nascosto, un serraglio tra poli inconciliabili, il significato si fa accertamento di verità come un’irriducibile e avvolta interrogazione cosmica, che invade l’oscurità silente e grande, un grido soffuso, un respiro di vento che bussa alle porte della realtà in attesa di un incontro compiuto, che dia calore all’immagine angosciosa ma pur sempre solenne di ogni agire umano.
La vita è essa stessa un evento irriducibile, Lagerkvist espande il suo indomito e fertile grido come pegno di un’umanità solcata sulle sue rive.