Sono passati anni da quando mi accorsi, studiando la Napolisofia, che erano molti i pezzi ispirati più o meno direttamente, alla mala vita (1). Alcuni erano dedicati ad una scelta spesso collegata all’onore, di cui abbiamo trattato più di una volta nella presente rubrica, mentre altri ne prendevano in esame le dirette conseguenze, viste sia in positivo sia in negativo. In effetti per la puntata di oggi mi sono trovata in serio imbarazzo sulle canzoni da analizzare, visto il numero esorbitante di proposte possibili, finché mi è tornata in mente DON RAFFAÈ
Fabrizio De André – Don Raffaè (The Godfather)
http://www.youtube.com/watch?v=aqVnV5f_ik4
Wikipedia spiega che la “canzone, scritta da Mauro Pagani per la musica e da Massimo Bubola e Fabrizio De André per il testo”, appartiene all’album “Le Nuvole (1990) ed è una denuncia della situazione delle carceri italiane negli Anni Ottanta”. Dal nostro angolo di osservazione, però, l’aspetto principale consiste nel rilievo in cui è posta
“la sottomissione dello Stato al potere delle mafie. Viene citato infatti un brigadiere di Polizia Penitenziaria del carcere di Poggioreale, ormai lacchè piegato al Boss in galera, ma anche la condizione di vita agiata all’interno del carcere dello stesso boss”.
Stando a ciò che De Andrè ebbe a dire personalmente,
“la canzone alludeva a Raffaele Cutolo, noto camorrista e fondatore della Nuova Camorra Organizzata, sebbene né De Andrè né il coautore Massimo Bubola disponessero di notizie di prima mano sulla sua detenzione. Anche Cutolo pensò a una dedica alla sua persona e volle scrivere al cantautore genovese per complimentarsi, meravigliandosi inoltre di come De Andrè fosse riuscito a cogliere alcuni aspetti della personalità e della vita carceraria del boss, senza avere a disposizione informazioni dettagliate.”
Gli artisti – i poeti soprattutto – hanno sempre manifestato speciali doti di intuito, per non dire di preveggenza, tanto che in antico vennero spesso identificati con gli indovini: la figura del Poeta-Vate del resto è arrivata sana e salva fino quasi ai tempi attuali. Difatti in DON RAFFAE’ ho trovato precisamente quello che cercavo per l’incontro odierno di Napolisofia: una canzone che da sola spiegasse i mille volti della criminalità organizzata, compreso quello umano che abitualmente viene sottaciuto per timore di apparire collusi.
Io mi chiamo Pasquale Cafiero
e son brigadiere del carcere, oinè.
Io mi chiamo Cafiero Pasquale,
sto a Poggio Reale dal ’53.
Se supponiamo che il nostro Pasquale racconti la sua storia negli Anni Ottanta , sarebbero più o meno 27 anni di detenzione come carceriere: un carcere molto duro, forse perfino più duro di quello inflitto ai carcerati veri. Non fa quindi meraviglia che
al centesimo catenaccio
alla sera mi sento uno straccio.
Per fortuna che al braccio speciale
c’è un uomo geniale che parla co’ me.
Il Boss si manifesta dall’inizio con quel volto umano che, come vedremo, è capace di attirare fiducia, ammirazione, forse autentica devozione (2). Il Boss si distingue nettamente e immediatamente dalla massa dei detenuti che deturpano la vita dell’infelice Brigadiere:
Tutto il giorno con quattro infamoni,
briganti, papponi, cornuti e lacchè,
tutte l’ore cò ‘sta fetenzia
che sputa, minaccia e s’à piglia cò me.
Per fortuna ci sono le pause-caffè con don Raffaele, che pur essendo un gran signore non disdegna, bontà sua, di familiarizzare con l’umile secondino (il quale comunque detiene un sia pur minimo potere nel microcosmo della galera):
ma alla fine m’assetto papale
mi sbottono e mi leggo ‘o giornale,
mi consiglio con don Raffae’,
mi spiega che penso e bevimm’ ò cafè.
Quel “mi spiega che penso” basterebbe da solo a fare di questa canzone un capolavoro. E’ uno dei percorsi dell’energia criminale: rivolgersi ai troppo semplici o troppo pigri di mente e gentilmente spiegare loro come devono pensarla. In quali settori della vita? Be’, in tutti: anche in quello politico, ovviamente. E su ogni cosa domina il rito del caffè, fatto presumibilmente con miscele pregiate (si veda il verso finale) e secondo una preziosa ricetta segreta:
A che bell’ò cafè,
pure in carcere ‘o sanno fa,
co’ ‘a ricetta ch’a Ciccirinell, (3),
compagno di cella,
ci ha dato mammà.
La visuale ristretta però si allarga ben presto, come d’improvviso, come per caso:
Prima pagina venti notizie,
ventuno ingiustizie e lo Stato che fa?
Si costerna, s’indigna, s’impegna,
poi getta la spugna con gran dignità.
Mi scervello e mi asciugo la fronte,
per fortuna c’è chi mi risponde:
a quell’uomo sceltissimo, immenso
io chiedo consenso, a don Raffaè.
Il nodo del problema è questo. Che si tratti di incapacità, di volontà cattiva o di pura e semplice complicità, lo Stato alla resa dei conti non c’è. Natura abhorret a vacuo, come disse qualcuno: nel vuoto effettivo di uno Stato disfunzionale, la gente comune – noi tutti, alla fin fine – quando le capita di aver bisogno di aiuto a qualcuno deve pur rivolgersi. E nei vari don Raffaè trova pronte risposte a tutto, dagli interrogativi sui massimi sistemi alle minuterie delle rogne quotidiane:
“Un galantuomo che tiene sei figli
ha chiesto una casa e ci danno consigli,
mentre ‘o Assessore, che Dio lo perdoni,
‘ndrento a ‘e roullotte ci tiene i visoni.
Voi vi basta una mossa, una voce
c’ha ‘sto Cristo ci levano ‘a croce.
Con rispetto s’è fatto le tre:
volite ‘a spremuta o volite ‘o cafè?”
Confesso di non capire l’allusione all’Assessore e alla roulotte, ma capisco quella alla croce. Chi mai potrebbe levare la croce a Cristo se non Dio Padre in persona? L’adulazione, antico strumento dell’impotente per cercare di asservire a sé il potere, unita al servilismo più laido (“volite ‘a spremuta o volite ‘o cafè?”), sembrano funzionare a dovere, anche se è lecito supporre che lo scoperto gioco del do ut des condotto dal secondino non possa avere misteri per il navigato Boss.
“Qui ci stà l’inflazione, la svalutazione
e la borsa ce l’ha chi ce l’ha.
Io non tengo compendio che chillo stipendio
e un ambo se sogno ‘a papà.
Aggiungete mia figlia Innocenza:
vuo’ marito, non tiene pazienza,
non chiedo la grazia pe’ me …
Vi faccio la barba o la fate da sé?”
La “grazia” ha tutta l’aria di essere una congrua somma di denaro, l’occorrente per il matrimonio di Innocenza: bel nome, tra l’altro, particolarmente opportuno per una fanciulla che si guarderà bene dal chiedere al padre chiarimenti sulla provenienza dell’inaspettata manna. Evidentemente il magnanimo detenuto del braccio speciale acconsente a tutto ma, siccome l’appetito vien mangiando, l’ingordo carceriere vuole ancora di più:
“Voi tenete un cappotto cammello
che al maxi processo eravate ‘o chiù bello
e un vestito gessato marrone,
così ci è sembrato alla televisione.
Pe’ ‘ste nozze, vi prego, Eccellenza,
mi prestasse pe’ fare presenza …
Io già tengo le scarpe e ‘o gillè.
Gradite ‘o Campari o volite ‘o cafè?”
Simbolicamente, indossare l’abito di un altro può significare in certe occasioni più di una cosa. Il cappotto di cammello e il gessato marrone sono facilmente riconoscibili, essendo per di più stati visti in TV addosso al Boss. Forse si può presumere che gli invitati al matrimonio di Innocenza li riconosceranno benissimo quando li vedranno sul padre della sposa. Il Brigadiere renderà così esplicito senza possibilità di equivoci il proprio stretto legame con il famoso Capo, la propria intimità con lui, quasi la propria assimilazione con lui, indossando i suoi abiti come un chiaro contrassegno del suo prestigio e del suo carisma.
A questo punto la domanda sorge spontanea: chi è il più camorrista tra i due, il servitore dello Stato o il Boss? Il Boss, naturalmente, perché è lui che ricatta, malversa, estorce, uccide. Ma entrambi sono corrotti e corruttori al tempo stesso. E giustamente entrambi sanno di correre un rischio: di fatto il Boss sta già pagando per i propri crimini, ma anche al secondino potrebbe essere prima o poi presentato il conto, sia pure sicuramente meno salato. I veri, i grandi colpevoli – eticamente più colpevoli di tutti – invece non pagano mai:
“Qui non c’è più decoro, le carceri d’oro
ma chi l’ha mai viste chissà.
Chiste so’ fatiscenti, pe’ chisto i fetienti
se tengono l’immunità.
Don Raffaè, voi politicamente,
io ve lo giuro, sarebbe ‘no santo,
ma ‘ca dinto voi state a pagà
e fora chiss’atre se stanno a spassà.”
Pasquale, abile nel gestire i propri strumenti, si prepara alla richiesta finale, ben sapendo che il Boss può manovrare come vuole, se vuole, anche i detentori del potere pubblico:
“A proposito, tengo ‘no frate
che da quindici anni sta disoccupato.
Chill’ha fatto quaranta concorsi,
novanta domande e duecento ricorsi.
Voi che date conforto e lavoro,
Eminenza, vi bacio, v’imploro:
chillo duorme co’ mamma e co’ me!
… Che crema d’Arabia ch’è chisto cafè.”
Così si conclude la panoramica di De André sul sistema malavitoso. Ché di questo si tratta, almeno secondo il Sito ‘O Sistema:
“Camorra… Camorra è una parola che non esiste più. A Napoli i camorristi parlano di sé usando un altro concetto: il Sistema. Si dice ad esempio: o guaglione di che Sistema è, di che clan fa parte?”
E’ appunto ciò che ci mostra, come dal vivo, DON RAFFAÈ: un “insieme di entità connesse tra di loro tramite reciproche relazioni visibili”. Così Wikipedia (alla voce Sistema), che chiarisce poi ulteriormente:
“Un sistema può essere definito come l’unità fisica e funzionale, costituita da più parti (tessuti, organi od elementi ecc.) interagenti (o in relazione funzionale) tra loro (e con altri sistemi), formando un tutt’uno in cui, ogni parte, dà un contributo per una finalità comune od un target identificativo di quel sistema.”
Che dire di più? In DON RAFFAÈ c’è tutto, sono mostrati uno ad uno non solo tutti gli “elementi interagenti” all’interno del sistema singolo (la Camorra, nella fattispecie) ma anche la “relazione funzionale”, ben salda ed efficace, tra esso sistema ed altri (quello politico, che di fatto detiene il potere vero. Dal nostro punto di vista, però, quello che più ci sta a cuore qui è il discorso napolisofico, per completare il quale esamineremo nella prossima puntata alcune canzoni in cui si trivano sviluppate le tante tematiche collegate agli “elementi” che danno vita al Sistema, del quale esamineremo anche, brevemente, la presunta genesi. DON RAFFAÈ è stata solo l’introduzione.
- Mi si consenta questa scrittura che, riandando all’origine dell’espressione, ne amplifica i significati.
- Cafiero lo definisce geniale, mettendone in risalto la superiore intelligenza.
- Ricordiamo che Cicerenella è un nome femminile.