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La voce di Primo Levi

Per guardare a Primo Levi bisogna essere fedeli alla sua voce. Voce bassa, parola timida e testimone, sguardo di confine. Nella grande stagione letteraria del secolo scorso, egli ha più volte configurato e rinnovato la sua scrittura e la sua analisi della storia drammatica del Novecento. In questo percorso non è mai escludibile la sua preparazione scientifica, chimica, fisica, etologica ed epistemologica, da positivista autodidatta («scrittore non riesco proprio a considerarmi… sono solo soddisfatto di questa mia duplice condizione e dei suoi vantaggi») come mistero e visione del mondo,  la sua testimonianza oculare come ferita e scissione e la sua peculiare inclinazione letteraria sin dall’infanzia: «quella educazione alla concretezza e alla precisione, all’abitudine di “pesare” ogni parola con lo scrupolo di chi esegue un’analisi quantitativa… quello stato d’animo che suole chiamarsi obiettività: riconoscimento della dignità intrinseca non solo delle persone ma anche delle cose, alla loro verità, che occorre riconoscere e non distorcere, se non si vuole cadere nel generico, nel vuoto e nel falso».

Già prima della sua terribile esperienza ad Auschwitz, nei racconti come «Piombo» o «Mercurio» confluiti poi ne Il sistema periodico il lungo processo creativo si allinea accanto alla tematica memorialistica, per così dire, che potrebbe identificarlo ma che non offre reale giustizia alla sua opera.  La condizione umana descritta da Levi in Se questo è un uomo è una sorta di retroazione. Essa poneva l’uomo tra due direzioni verticali, in cui trovare l’intermezzo di resistenza e di salvezza, condizione questa che sarà presente anche ne I sommersi e i salvati. Per questa visione “verticale” Levi ha sempre avuto cara la Divina Commedia, come discesa agli inferi e risalita, movimenti opposti e affini, simbolo di vita inestinguibile.

Come è possibile spiegare Auschwitz? Dove «l’essenza della grande follia della terza Germania» aveva manifestato la sua crudeltà spietata, era la sua missione di uomo, non già di scrittore. La vertigine dell’uomo che cerca di far capire al mondo l’amoralità dei campi di sterminio, per aggrapparsi alla sua ora incerta (“Sono vecchio come il mondo, io che vi parlo. // Nel buio degli inizi/ Ho brulicato per le fosse cieche del mare, / Cieco io stesso: ma già desideravo la luce / Quando ancora giacevo nella putredine del fondo”), alla sua omeòstasi. La condizione-limite è un viaggio all’inferno, la riduzione dell’uomo a bestia, il suo annullamento e abbassamento con conseguente privazione del senso del futuro e delle barriere linguistiche sono esperienza di un richiamo che superi la condizione del “bruto” e alla necessità di scampare alla statura di ciò che impone il Lager. Scriverà successivamente Primo Levi nel 1983 nel saggio  «Il brutto potere»: «Questo pianeta è retto da una forza, non invincibile ma perversa, che preferisce il disordine all’ordine, il miscuglio alla purezza, il groviglio al parallelismo (…), la stupidità alla ragione».

L’Armata Rossa arriva ad Auschwitz e per i sopravissuti del Lager finisce la prigionia. Così con La tregua (1963), inizia un interstizio del mondo tra due guerre, in alternanza di vita e di morte, di viaggio paradossale. Nel lungo e difficile viaggio di ritorno Primo Levi incontra altre vittime, molto diverse, ma personaggi determinanti per la sua salvezza come il Greco, ad esempio, vicino a quella letteratura maccheronica e a Rabelais, tanto cari allo scrittore.

Dal treno che lo riporta a casa egli vede molti tedeschi, complici di quei carnefici ma molti uomini svuotati dalla dittatura e in loro vede una assoluta mancanza di pentimento e di miseria ma con una presenza ancora di quel fervore razzista ed antisemita. Il ritorno è drammatico, un’odissea ma la voce è lucida, analitica, asciutta, essenziale. Un rapporto scientifico con la parola, si potrebbe dire. Ci vorranno cinque mesi di viaggio per mare e per terra, dopo la fine della guerra, prima di arrivare in Italia. E in quel punto scatta la retroazione rispetto all’inferno di Auschwitz, un viaggio verso sud e poi sud-ovest. Ma nemmeno il ritorno a casa, l’abbraccio a madre e sorella, la fine di un tempo sospeso, riescono a cancellare quella esperienza e quella lezione in una libertà-sogno che si interrompe subito, in una perenne ferita mai rimarginata: « sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. (…) odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, «Wstawac».

Ma alla fine l’erompere della tragicità del male e della contemporaneità prevalse come interruzione di comunicazione e di luce, quest’ultima sempre presente, e finì per oscurare la sua vita, chinata e lieve sulle scale.

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