La poesia di Salvatore Quasimodo (premio Nobel per la letteratura nel ’59) è un canto di limite sommerso. Egli stesso aveva ben chiara l’idea che il canto poetico fosse elaborazione trascendentale di una pena, del tragico che innerva l’esistenza, non solo singola, ma di un intero processo umano. Poesia di cesura, quindi, tra guerre devastatrici e che porta i segni di un antico schema di mitologia, figura della metamorfosi, o meglio della mutazione oscura, come egli stesso descrive, in modi evidenti, in Metamorfosi nell’urna del Santo, perennemente alla ricerca di una iniziazione perduta e negata. E’ una materia ‘di limite’ tellurica ciò che egli mette a fuoco, amata, ma anche incombente, avvertita con anima pura di fanciullo: <<Io sono forse un fanciullo/ che ha paura dei morti, / ma che la morte chiama/ perché lo sciolga da tutte le creature:/ i bambini, l’albero, gli insetti;/ da ogni cosa che ha cuore di tristezza.>>. Terra e morte, eros e morte. Ma non è una visione impregnata di nichilismo, bensì un’espressione di purezza cristallina, di sublimità chiara, di un desiderio di rivelazione e redenzione, in una parola: di miracolo: <<Ed ecco sul tronco / si rompono gemme:/ un verde più nuovo dell’erba/ che il cuore riposa:/ il tronco pareva già morto, /piegato sul botro. / E tutto mi sa di miracolo;/ e sono quell’acqua di nube/ che oggi rispecchia nei fossi/ più azzurro il suo pezzo di cielo, / quel verde che spacca la scorza/ che pure stanotte non c’era.>>. Il mondo, come scrive Cesare Milanese è “un organismo di luce, che vale come grande mezzo per far udire voci di vita che riecheggiano voci che vanno a l di là della vita (…) Uno strumento musicale messo a tacere”. Da qui il <<telaio di suono>>, <<l’oboe sommerso>> e i <<timpani sepolti>> e le cetre appese ai salici. Far vibrare il loro suono fertile e vago, orficamente, è il compito peculiare del poeta. Gianfranco Contini ha individuato nell’assolutizzazione della parola, ottenuta con eliminazione degli articoli, l’isolamento dei sostantivi, l’ellissi la traccia del suo verso che abita più dimensioni. L’amore (<<Mio amore, io qui mi dolgo/ senza morte, solo), il dolore umano e universale, la sua amata Sicilia, la natura risultano trasfigurati nella sacralizzazione della parola, che scende nella bellezza di ciò che è esatto e indicibile. Dimensione tellurica, si è detto, ma anche aerea. L’aria è quella luce nuda che avvicina l’io e la natura: <<Nuda voce, t’ascolto:/ e ne ha primizie dolci il suono/ e di rifugio il cuore arato;/ e mi sollevi muto e adolescente, / d’altra vita sorpreso e d’ogni moto/ di subite resurrezioni/ che il buio esprime trasfigura>>. E poi forme d’albero, portatrici di una mitologia lontana: <<In alto c’è un pino distorto, / sta intento ed ascolta l’abisso/ col fusto piegato a balestra>>. Questi correlativi, come anche ad esempio l’isola, sono attimi accorati e vivono di percezioni sommerse e nascite, di ciò che vibra nell’animo, come legaccio infinito tra noi e le cose, tra vita e morte. La storia, dall’altro lato, rivela il suo male e la sua successiva incomprensione dei processi storici, la sua in temporalità. Anche nelle raccolte del secondo dopoguerra si avverte una diversa impostazione ideologica e umana, da un lato stilisticamente in oscillazione tra Ungaretti e Montale, dall’altro protese verso un ‘situarsi’ dell’esperienza poetica e della sua epica quotidiana. Scrive Sergio Solmi: “Quale, allora, il tema unico e fondamentale della poesia di Quasimodo? (…) Il senso di una divisione irreparabile: da una parte un beato Eden, che a volta a volta è l’isola siciliana dove il poeta vide la luce, una misteriosa città sepolta nel suo cuore, che la poesia miracolosamente ravviva nel suo soffio (…). O è l’infanzia che, risvegliata da un odore di piana, rinverde nella sua antichissima favola (…). Terra e infanzia si confondono in un sogno unico, a cui il poeta approda di tanto in tanto pacificato”.
La terra dello zolfo immobile dove l’Anapo gorgoglia e sulle cui rive <<mansueti animali/ le pupille d’aria/ bevono in sogno>>. Un sogno ancestrale sepolto che raffiora in maniera ignota e sepolta. Ma dentro questo canto di sponde esiste una trafittura di solitudine, una mancanza di rapporto con il resto dell’umano vero, come un centro visibile di un romanzo religioso: (“Ognuno sta solo sul cuor della terra – trafitto da un raggio di
sole: ed è subito sera”). “Dolore e pena senza oggetto: (…) come non c’è fusione tra anima e corpo, parla sempre in lui il lirico astratto, in uno spazio solare e notturno che è ricerca di qualcosa che non ha nome”. (Gilberto Finzi). Anche attraverso la meravigliosa traduzione dei lirici greci, dove il poetare si riflette sul tradurre, compie il suo atto vero di poesia. Quasimodo percorre la sua strada di luce e di vento, con il suo sole di isole e l’anima viandante sulla terra.