Orafo e scultore pluripremiato, Antonio Borrelli nasce a Napoli il 13 giugno del 1928. In seguito all’iniziale formazione tecnica presso la bottega orafa di Nicola Soriente, frequenta l’Istituto Statale d’Arte di Napoli dove è allievo di Ennio Tomai e Romolo Vetere. Dopo due anni trascorsi in Cina, presso l’industria tessile di proprietà dell’imprenditore Orion Gloves, tornato a Napoli completa gli studi ed accetta l’incarico di insegnare nel Laboratorio di Oreficeria e Metalli presso l’Istituto d’Arte Palizzi. Gli anni ’60 e ’70 sono caratterizzati da premi e successi per lo scultore, il quale si dedica anche alla medaglistica ed alla produzione di arredi sacri, ancora oggi presenti in numerose chiese, come le maniglie nella chiesa di Villanova, la balaustra a Venosa e le maniglie nella chiesa di Piedigrotta. Nel 1977 gli viene assegnata la Cattedra di Tecniche di fonderia presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli e sempre nel corso degli anni ’70 si impegna nella Federazione Lavoratori Arti Visive della CGIL, diventando segretario nazionale del sindacato. Nel 2006 riceve il Premio Palizzi a Napoli e nel 2009 il Premio Fraternità Città di Benevento. Le opere realizzate da Borrelli sono raccolte in una monografia, pubblicata in occasione dei suoi ottant’anni (Paparo edizioni), contenente commenti di critici e parole che lo stesso scultore pronuncia in una video-intervista realizzata da Mario Franco, in collaborazione con uno dei figli del noto scultore partenopeo. Città del Monte lo ha intervistato in occasione della settima edizione della Giornata del Contemporaneo, svoltasi a Napoli l’8 ottobre scorso, presso la sua casa–atelier.
Maestro, che ricordo ha del periodo trascorso ad Hong Kong, quando realizzava fantasie per guanti?
«Da giovanissimo ebbi l’occasione di conoscere un grande industriale di guanti. Fu un periodo molto bello. Orion Gloves era un ebreo di origine ungherese che lavorava in Australia. Napoli era una delle piazze più importanti per la produzione di guanti per i quali è necessaria una lavorazione particolare della pelle che deve estendersi il larghezza e mai in lunghezza, per assumere la forma della mano. Riscossi molto successo tra gli industriali napoletani. Lui si preoccupò che io potessi andar via e mi offrì l’opportunità di trasferirmi in Cina. Ero molto giovane ed il pensiero di visitare l’estremo oriente mi affascinava. Inseguito mi propose di dividere ogni piano della fabbrica in due perché i cinesi ci sarebbero entrati in quanto di piccola stazza. Perciò decisi di tornare in Italia. n più credevo che non sarei mai stato capace di diventare totalmente padrone della lingua cinese. Ciò mi turbava perché a me interessa parlare guardando negli occhi il mio interlocutore, cogliere non solo quello che uno dice ma anche quello che pensa dialogando.
La Cina è una grande nazione, con un grande popolo ed un retaggio storico eccezionale. Ciò di cui mi occupavo era innovativo per l’ambiente orientale. Credo di aver carpito ai cinesi il loro modo di comportarsi nell’operare e sono stato il frutto di questo connubio. Alcuni smalti a fuoco che ho realizzato al mio rientro hanno risentito dell’influenza cinese e presentano delle figure orientaleggianti».
Cos’è la tecnica dello smalto a fuoco?
«E’ una tecnica di fusione che ho appreso all’Istituto d’Arte e che produce un effetto simile a quello del vetro colorato, si adatta benissimo al rame. I miei smalti sono stati esposti per la prima volta nel 2010, in occasione di una mia personale a Castel dell’Ovo quando ho anche donato una mia opera in alluminio, “Composizione”, alla città di Napoli».
Numerosi suoi ex allievi oggi sono noti. Tra questi c’è Giacometti che ha dichiarato di aver appreso da lei la concretezza nel rapporto con l’arte. In occasione della presentazione della sua monografia, nell’ambito del premio Napoli – Dalla Cina a Pizzofalcone, storia di un artista napoletano, i suoi allievi dell’Istituto d’Arte e dell’Accademia, tra cui Corrado Esposito e Sasa Castrese, raccontavano di quanto fosse forte il rapporto con il maestro poiché, in particolare gli allievi dell’Istituto d’Arte, trascorrevano con lei lunghi periodi d’impegno. Che rapporto aveva con i suoi studenti?
«Molto bello perché loro per me rappresentano uno stimolo a creare. Impersonando la gioventù, stimolano verso il nuovo dunque ben vengano gli studenti! Quasi subito mi venne offerto di insegnare all’Accademia, incarico che io accettai ben volentieri. Il rapporto con gli studenti per me era la cosa più importante, ho avuto sempre un bel rapporto con loro. Quando un insegnante non instaura un rapporto, chiamiamolo anche di amore, con i suoi allievi per me l’educazione è incompleta. Ogni allievo ha un suo carattere, occorre la capacità di trasmettere loro la passione. Non era facile far lavorare alcuni allievi notte e giorno. I miei studenti però mi hanno sempre seguito, con un po’ di fortuna e con la capacità di trasmettere loro l’entusiasmo. Ritengo che il rapporto con l’allievo sia uno dei momenti più gratificanti per un maestro. L’evento che mi ha fatto soffrire di più è stato il distacco con gli studenti, il fatto di aver lasciato l’Accademia a settant’anni».
Negli anni settanta ha iniziato ad adottare la tecnica ossiacetilenica, quali benefici comporta nell’ambito della produzione artistica?
«La saldatura a ossigeno comporta l’utilizzo dell’ossigeno e dell’acetilene. Il primo a praticarla a Napoli fu il mio maestro, Romolo Vetere, che era attratto da tutto ciò che era innovativo. Iniziò a fare arte utilizzando questa tecnica, realizzando opere che sono ancora in giro per la città e per il mondo. Io ne ero affascinato ed ho seguito queste orme con qualche successo. La tecnica della fusione ossiacetilenica consente di realizzare opere immediate, senza alcun bozzetto. In questo modo realizzai un cavallino rampante in ferro saldato quasi uguale ad uno che avevo creato in bronzo e capì che questa nuova tecnica mi avrebbe offerto possibilità nuove e maggiore libertà. Anche la scelta dei materiali influisce sulla realizzazione di un’opera. Il ferro o l’acciaio sono diversi dalla creta o dal gesso, consentono di realizzare direttamente l’oggetto senza la mediazione di alcuni passaggi. Ci vuole una certa padronanza del mezzo che si sta utilizzando per arrivare direttamente all’oggetto che si ha in mente e l’immediatezza permette di esprimersi al meglio».
Lei nasce come orafo ed ha realizzato numerosi gioielli, molti dei quali riproducono in scala ridotta sia le opere appartenenti al periodo della ricerca modulare sia quelle in ferro saldato e cadmiato. Collier, anelli, orecchini, dal design moderno e dinamico. E’ difficile trasformare una scultura in gioiello?
«Non sempre è possibile, tuttavia il passaggio dalla miniscultura alla maxiscultura non è mai stato un problema per me. Mi veniva naturale pensare sia al micro che al macro perché sono nato da orafo. Ho sempre preferito il metallo, dall’argento a l’oro, dal bronzo al platino. In passato, lo scultore iniziava quasi sempre frequentando la bottega orafa e poi, se aveva i mezzi, faceva anche lo scultore».
Perchè la scelta di lavorare soprattutto il ferro?
« All’inizio è stata una scelta istintiva, poi l’ho assunto come elemento espressivo del mio lavoro. In precedenza ho utilizzato la creta, il gesso, l’acciaio, il bronzo. Il ferro è un materiale molto duttile, resistente e mi trasmette forza. Le forme delle mie opere sono rappresentative dell’epoca in cui viviamo, dell’epoca moderna o modernissima. L’arte antica non cessa mai di emozionarmi ma preferisco l’arte contemporanea perché è più vicina a me ed al mio modo di sentire, ciò vale anche per la letteratura e per le forme di arte visiva in generale».
Qual è l’ evento della nostra epoca che ha influenzato in modo più significativo la sua arte?
«La conquista dello spazio è una degli eventi più eccezionali della nostra epoca. Con la conquista dello spazio è prevedibile un futuro diverso da quello che hanno avuto i nostri genitori. “Relitti spaziali”, ad esempio, erano mediazioni tra un mezzo nuovo ed una realtà nuova che si presentava ad una sensibilità particolare. Io sono un uomo che vive anche di emotività quindi di fronte a certi avvenimenti mi pongo degli interrogativi e cerco delle risposte che poi esprimo nelle mie opere».
Lei attribuisce grande importanza al valore del dialogo nell’arte. Questo discorso si ricollega alla sua opera “Incontri” che oggi rappresenta anche il prestigioso Premio Fraternità, peraltro ricevuto da lei stesso, che ogni anno premia quattro personalità che si sono distinte nell’ambito della solidarietà in politica, nella cultura, nell’arte e nella religione. In quest’opera le diversità, distinte le une dalle altre, s’incontrano e danno luogo ad un’unità.
«Il dialogo è sempre auspicabile e molto importante anche se non sempre possibile a causa di elementi di chiusura che lo impediscono. Dialogando si fa il punto di una situazione che da storica si fa attuale e tutto ciò che interessa il mondo che ci circonda interessa il mondo dell’arte. L’arte ha una funzione sociale, stimola i nostri sensi e contemporaneamente viene influenzata dal mondo circostante, influenzandolo a sua volta.».
Un fedele alla chiesa di san Domenico a Ischia, della quale lei ha realizzato il tabernacolo in ardesia e bronzo, l’altare, e i lumi in bronzo e plexiglass, le disse che ciò che aveva realizzato doveva essere in nome di una fede molto profonda. In realtà lei nutre una fede profonda nell’uomo …
<<Sì, sono ateo>>.
Tuttavia lei ha incontrato Papa Giovanni Paolo II in occasione della consegna di una medaglia da lei realizzata, raffigurante una mater matuta. Cosa ricorda di quell’incontro?
«Era un incontro privato, con il sindaco, il vescovo e Ventriglia. Il Papa volle incontrarci. Fu un bell’incontro. Giovanni Paolo II era un uomo di un’umanità immensa, esprimeva quest’amore per gli uomini in un modo semplice ed immediato e chiunque restava affascinato da questa sua semplicità, seppure nella complessità del ruolo che ricopriva».