Agli albori dell’umanità, quando l’uomo non aveva di che scaldarsi, la caverna era la sola dimora in cui riparare carne ed ossa dal gelo. Fuori ci sarebbe stato un mondo da scoprire, ma lui, il nostro tris-tris-trisavolo troglodita era troppo pavido (o troppo furbo?) per scoprire se stesso dinnanzi alle forze della natura. Così preferì delegare i suoi posteri alla scrittura della storia e continuare a guardare le ombre platoniche, finte e ridicole. Inutili, perché illusorie. Finché non arrivò il suo figlioccio contemporaneo, virgulto della scienza positivista, prodotto sociale dell’urbanizzazione, intelligente al punto da inventare e fabbricare caldi paramenti per difendersi dal rigore invernale. Nella penna dello scrittore Nikolaj Vasil’evič Gogol e nella voce dell’interprete Roberto De Francesco, ad indossare le vesti sceniche del Cappotto, c’è uno dei tanti pronipoti contemporanei dell’ominide primordiale, figlio di grande madre Russia e di padre ignoto, chiamato Akakij Akakievic: nome goffamente cacofonico, buffo come la vita e le sue strade. Quelle di una San Pietroburgo cupa, rasa al suolo dalla cortina di ferro della nomenclatura sovietica e da quella impenetrabile della neve. Sotto la neve si consuma la vicenda del povero Akakij e del suo unico compagno di un viaggio breve e magramente consolatorio: il cappotto, agognato totem per il quale ha sudato mesi di straordinario in un qualche Ministero degli Affari Inutili dell’ URSS, dedito ad un alienante cogito, ergo sopravvivo.
Nel piccolo Teatro 14, se gli spettatori sentono il freddo della storia narrata e si perdono nel vuoto delle parole che non riusciranno a salvare Il Cappotto dal suo destino, il merito è del binomio Roberto De Francesco attore- Pappi Corsicato regista.
Niente scenografia: solo un leggio, poche luci ed effetti sonori. Non c’è retorica nell’interpretare chi della retorica è agnello sacrificale. C’è solo un monito sarcastico. Per quanto abbia cercato di scaldarsi dal gelo del mondo, il buon antieroe contemporaneo non è rimasto indenne dalla schiavitù della caverna primordiale: un luogo in cui le ombre degli spettatori di passaggio si confondono con le persone reali, che alternano gelida comprensione a commossa indifferenza, e il tutto rimane sospeso tra palcoscenico e retroscena. Proprio come nel teatro.