La poesia di Dino Campana (1885-1932) vive nella sua costante inafferrabilità e estremità. Il suo orfismo non è caratteristica solo della sua poetica, ma è il suo modo di essere, la sua traccia interna.
La sua vita da fuggiasco, particolare nella sua luce fioca e violenta, vive di luoghi e del legame importante tra passato e futuro, in una trama di ombre e di vita.
I suoi Canti Orfici, scritti e poi ripresi e reinventati, da un lato si aggrappano alla tradizione (si pensi a Leopardi o il Goethe del Faust) e dall’altro sviluppano una vitalissima strada d’origine e di una voce primordiale, aperta e moderna (Apollinaire).
Dino Campana non è solo la sua biografia, tumultuosa e inappagata, è il passaggio di un fuoco poetico che esplora gli emblemi dell’esistenza e le sue contraddizioni.
Scrive Davide Rondoni: Campana non ristà, come molta cultura moderna, in una posizione di lamento o di disdegno alla Capaneo, per questa riconosciuta “diminuzione” della presunzione umanistica e romantica. I suoi appunti notturni, di viaggio, le poesie lasciate a mezzo, i versi stupendi che lampeggiano, sono l’alfabeto di una lingua umana spesso dimenticata: non la lingua del presuntuoso che si lagna se il mondo non è fatto come dice lui, ma il balbettare, il gridare, il dare in escandescenze di chi si sente attratto da un andamento infinito, stragrande, da una misura più vasta della sua mente. Il cinema dell’universo lo attrae.
La sua espressione poetica è un viaggio tragico nell’esistente, non solo nelle due ‘insegne’ poste all’inizio e alla fine del testo, con quel riprendere un verso di Whitman – in cui si adombra la morte del protagonista come assassinio di un innocente-, ma in tutte le sue pagine estreme, ossia assolute, ma anche mistiche e selvagge.
Esiste una frattura netta con la società letteraria, fiorentina in ispecie, nella sua vita, un peregrinare di bordi e un’identificazione con un eroe tragico, che combatte contro il resto o l’incidente e la morte. Una predestinazione al martirio e alla fuga.
Anche la sua stessa proiezione linguistica, come testimoniano gli importanti studi di Maura dal Serra, ha la capacità di assimilazione, di immersione nella lettura e nelle letterature, ridistribuite secondo la sua personale attività e peculiarità.
Lo scenario della sua poesia, fatto di passaggi notturni, di corruzione e di purezza, e il viaggio si intrecciano al silenzio imprendibile della sua quotidianità e del suo vagare.
Le immagini dell’acqua, declinate in tutte le sue forme e ciò che essa contiene, diventano ossessione e capaci di attrazione simbolica.
Marradi, suo paese natale, diventa terra originaria e primigenia, terra-madre lacerata e lacerante, con la quale egli si rapporta con feroce tumulto e angoscia violenta, ripetendo il trauma dell’allontanamento materno che con il ritorno tenta di recuperarla, di riviverla: <<Dove il tramonto bruci in fiamma vera / Col solo aroma purificatore della forza / Nuova, infinita, intatta; un cielo dove / Frati e potenti non abbiano fatto / La tana come i vermi / E’ questo che io voglio e lancerei / le navi colossali/ Verso il paese nuovo (non putrida patria) / Le navi sferrate sul mare senza colore/ Sì senza colore alla fine. Come è infinitamente stupido / L’azzurro infinito>>.
Campana vive di ebbrezza mistica, carica di senso religioso e di ribellione, di respiro inquieto e di spazi vergini, dove l’arte acquista il suo rapporto di verità con le cose, come punto di arrivo del mito.
Poesia del viaggio, dunque, in un ‘luogo’ in cui si sperimenta la lacerazione e la gioia, il ritrovamento e la perdita, l’isolamento e la goliardia.
Le sue ossessioni hanno matrice femminile. Chimera che racchiude il segreto o la prostituta che intreccia la città e, soprattutto, la città di mare, generatrice di visioni immateriali. Essa è l’emblema dell’effimero, del disamore e dell’ambivalenza emotiva : <<Ed il mio cuore era affamato di sogno, per lei, per l’evanescente come l’amore evanescente, la donatrice d’amore dei porti, la cariatide dei cieli di ventura>>.
Genova ad esempio, rappresenta il doppio movimento regale dell’avvicinamento e dell’allontanamento, strettamente uniti, e il desiderio/repulsione della sosta e della partenza.
La presenza della donna, scrive Gianni Turchetta, è infatti sistematicamente caratterizzata da quella stessa dialettica ambigua di desiderio e di rifiuto, di amor persino e insieme di aggressione neanche troppo celata, che è nel rapporto, reale o immaginario, (…) si potrebbe perfino dire che i Canti Orfici sono, nel loro complesso, nient’altro che la messa in scena, infinitamente reiterata, dell’apparizione del corpo della donna, e della sua onnipresente sparizione: <<Lasciando il cuore mio di porta in porta: /Con Lei che non è nata eppure è morta / E mi ha lasciato il cuore senz’amore: / Eppure il cuore porta nel dolore: / Lasciando il cuore mio di porta in porta.>>
Le case, i paesaggi della notte,le strade sono gli scorci di un appressamento e di una combinazione di abisso e luce, come necessità di rinascita e di rivitalità: il tramonto e l’alba insieme. Anche il suo amore più importante, quello con Sibilla Aleramo, viene vissuto sulla traccia dell’esilio e dell’impossibilità, nella scomparsa e nell’inesistenza, ma risulta anche il patrimonio della sua inesauribile densità affettiva, rimessa e sublimata, contro ogni fragile persecuzione. In un delirio sensuale e selvaggio. Un viaggio dentro l’addio: << In un momento / Sono sfiorite le rose/ I petali caduti/ Perché io non potevo dimenticare le rose/ Le cercavamo insieme / Abbiamo trovato delle rose / erano le sue rose erano le mie rose/ Questo viaggio chiamavamo amore / Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose/ Che brillavano un momento al sole del mattino/ Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi/ Le rose che non erano le nostre rose / le mie rose le sue rose/ P.S. E così dimenticammo le rose>>. Erano le sue rose, le nostre rose.