Quale ansia muove la poesia di Vladimir Majakovskij (1893-1930)? Di che pasta è composta la materia della sua tensione ed esperienza poetica? Qual è la sua domanda al mondo?. In quella oscurità rivoluzionaria, nel fuoco della controversia, l’anima di Majakovskij ha percorso le germinazioni futuriste, che promuovevano la liberazione dalla “zavorra” dei classici, per promuovere un nuovo solco di avanguardia, una nuova ideologia liberatrice.
Ma l’interpretazione di un Majakovskijj rivoluzionario o avanguardista non rende ragione a ciò che rompe lo schematismo dottrinario. Egli è stato una sfida dell’uomo a ciò che desidera, a ciò che lo compie.
Majakovskij non è solo un poeta della rivoluzione, o meglio, non è quella la sua linea assiale. Nella sua innovazione di modelli e di crinali poetici, nella derivazione e nell’arbitrarietà, egli ha diramato il tessuto poetico verso una forza misteriosa e magmatica.
Una poesia dal basso che scruta la periferia per farsi centro. Un anelito che si nutre dei margini per far luce su di essi.
Poesia di spropositi e di sovvertimenti, che smaschera il mito rivoluzionario, da lui anche propugnato, per impagliarsi con il sangue, con il limite del sangue (“La nuvola in calzoni”). Come un funambolo estremo.
È stato paragonato a un eroe dostoevskijano per il suo religioso moto interno, per il suo tormento, che, non di rado, assumeva la forma del sacrilegio, della ribellione, della bestemmia.
Ma la bestemmia è un grido al contrario, nell’impossibilità di risolvere il dilemma davanti al Mistero con serena accettazione tranquillizzante.
La sua poesia – specie quella giovanile- è densa di una teodicea sociale senza consolazione. Anzi la ferita del limite trova in lui incarnazione, così come il dolore diviene una sfida all’umanità, all’impossibilità di domarlo, di santificarlo, o in una parola, di salvarlo.
La brama di amore e la conseguente difficoltà di essere amato e di amare, di trovare appagamento in una spalancata carnalità redenta, ha visto nel suo sguardo una vertigine straziata, in cui l’eros cerca l’eternamento nell’impossibilità di ciò che non sfugge.
Nell’ampio gesto affettivo egli cercava l’eternità del movimento amoroso, ma laddove il desiderio incontra il limite emerge la morte della pronuncia, della parentesi eterna, della dimensione totalizzante dell’essere: «è la mia anima/ in quei brandelli della lacerata nuvola/ sull’arrugginita croce del campanile/ nel cielo riarso!».
Esiste una stretta connessione tra pittura e poesia nella sua opera, quasi che aprendo il linguaggio alle morfologie della strada, egli potesse dipingerne i tratti, le percezioni grafiche, le accensioni sonore, il tono umano.
Il suo amore per Lil’ja Brik ha visto l’abisso diventare voce. Nel tacito spazio del cuore il contatto con l’altro, con l’anima dell’altro è un’invasione di gemme, un porto che abita i nostri percorsi, apre le nostre cateratte. È ciò che nasce dalla lotta, dall’abisso di tremore e luce che compone i nostri spasmi, le nostre furie interrotte, come scrive ne Il flauto di vertebre: « Io,/
taumaturgo di ogni tripudio,/ non ho con chi andare alla festa./ Cadrò di schianto, supino,/ sfracellandomi il capo sulle pietre del Nevskij!/ Ho bestemmiato./Ho urlato che Dio non esiste,/ e lui ha tratto dal fondo dell’inferno/ una donna che farebbe tremare una montagna/
e mi ha comandato:/ amala!»
Estremità, tragedia e contraddizione (come sottolineò Boris Pasternak), in una voce che conosce il fondo dell’animo e che in quell’interstizio di quadri, gioca la sua lotta, la sua sfida tra il tocco che fa nascere le cose e l’abbraccio assoluto di un comando.
Non si riesce a separare la vita dall’esistenza, il destino della vita coincide con il destino della poesia, in un unico moto che si sfrangia e si dipana: «e mostrai su un piatto di gelatina / gli zigomi sghembi dell’oceano. // Sulla squama d’un pesce di latta/ lessi gli appelli di nuove labbra. / Ma voi/ potreste/ eseguire un notturno/ su un flauto di grondaie?».
La sua declamazione è un lievito di nebbia, un tremito di vie che pervadono il senso dell’amore nel corpo: «Cosce-vulcani sotto il ghiaccio delle vesti,/ messi di seni mature già per il raccolto. Dai marciapiedi con ammicchi malandrini/ frecce spuntate insorsero gelose. // Stormo che a un colpo di tacco si levi a volo nel cielo / preghiere di altezze presero al laccio Iddio: / con sorrisi di topi lo spennarono/ e beffarde lo trassero per la fessura d’una soglia».
Una ferita braccata nella strada del tempo che conosce gli anfratti dei selciati dell’anima, che percorre il margine di sponda, nel grido alto e rauco della ribellione e dell’insulto: «Sarà forse perché il cielo è azzurro/ e la terra mia amante in questa nettezza festiva/ che io vi dono dei versi allegri come ninnoli, / aguzzi e necessari come stuzzicadenti. // Donne che amate la mia carne e tu, ragazza / che mi guardi come un fratello, / coprite me, poeta, di sorrisi: / li cucirò come fiori sulla mia blusa di bellimbusto.».
Preparava il suo «concerto d’addio» nella teomachia del suo spazio, in un ricamo che vacilla, per «sgranchire la schiena dell’arte e raddrizzarla» nella sua urbanità smossa.
Come altri grandi russi, come Sergej Esenin prima o Marina Cvaetaeva poi, decise di interrompere la sua esistenza nel 1930, in un tempo convulso, con un colpo di pistola al cuore. Il suicidio non è il destino, è un modo di conoscenza del destino, dietro le sue motivazioni estetiche, creative e filosofiche. Come Cesare Pavese, scrisse queste ultime note. Marina Cvaetaeva scrisse che era vissuto come un uomo e morto come un poeta, così nella sua interezza e nel suo dissidio: «A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol’dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un’esistenza decorosa, ti ringrazio. I versi qui iniziati dateli a Brik, loro sapranno che farne. Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro gli scogli banali della quotidianità. La vita e io siamo pari, inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici». A piena voce.