Nominare il mondo con le parole significa aggiungere il respiro alla forma, al territorio della gioia, ai sotterranei del dolore e ai bagliori ciechi della vecchiaia e della morte. Con Salva con nome (Mondadori, pp.120, euro 16,00) Antonella Anedda, una delle poetesse italiane più incisive e fendenti, offre lo scenario di un percorso di nominazione, che permette all’immagine, accompagnata anche dall’istanza fotografica, di sollecitare la ferita della bellezza, attraverso volti, memoria vivente e vicinanza.
Le otto sezioni del libro, precedute da una sorta di testo-spartiacque- denunciano una inadeguatezza, la reticenza di una pronuncia, che reca strappi ampi, salvezze implorate: « Cos’è un nome? Nulla. Un suono che chiama un corpo, un campanello che ti aggioga. Ricevere un nome è la prima prova che siamo in balia degli altri. Non avere nome significa fuggire: pochi hanno il coraggio di andarsene dal nome che hanno fino al nome che sono (…) Hölderlin aveva capito che nella firma Scardanelli c’erano scaglie di pace. Hölderlin corrispondeva a un nome spesso deriso. Scardanelli scardinava il passato. Ho lasciato i nomi dei luoghi, mi piace osservare come gli esseri umani cadano inghiottiti dai paesaggi.».
Toccare la datità dell’essere, misurare la consistenza della sua sostanza, richiama la nostra identità, fornisce la domanda al vano tentativo di definizione, di delimitazione irrisolta, di segni lasciati sulle pietre. L’identità, che conosce gli “oggetti senza colpa”, cerca corrispondenze, si appropria della materia, come frammenti accesi di esistenza e sguardo: «Solo così, credo, imparammo ad amare/ gli oggetti senza colpa,/ un parafango e il fango stesso/ se preso da una mite angolatura verso il sole,/ il mondo senza sangue dei balconi con le piante annaffiate./ Contro il tempo trovammo l’arte dello spazio/ la precisione che non permette alla mente di affondare.».
La mutevolezza delle cose e il loro sfarzo che ferisce, come fame di gioia, tesse ricordi, lotta fino all’ultimo respiro con il decadimento, la precarietà, la rovina ineluttabile. L’io, pertanto, offre il proprio campo agli elementi, alle composizioni del creato. L’aria, soprattutto.
L’aria che compone le trame del cielo, che non ama i confini, che cuce la sottile essenza del suo profumo e della sua concreta inconsistenza: « Lasciami libera da me – dunque da loro – di cui conosco i nomi/ e le separazioni. Fai che non li senta più fondere fuoco/ in questo bronzo che mi scuote».
Nei dettagli del soffio, delle acque, dei fuochi rinviene la sua prosa umana e il suo gesto di poesia fluida e composita. La nominazione di Antonella Anedda è un frammento che si impossessa della materia, per divenire una totalità: « Ancora pensi a una scaglia di amore (forse, forse/ dice vagando per la stanza la luce mattutina). / Ancora hai la forza di pensare che il silenzio ti cura/e la solitudine splende/ con gli avanzi del cibo su cui si posa il cielo.». Una lingua che invoca e domanda salvezza. Ma è una salvezza che non si impone per grafie proprie, ma soggiace al riconoscimento dell’alterità. Nella nudità altra si scopre la vera spoliazione della propria immagine: «Esiste una gioia nella reticenza / e un riparo perfino in questo spazio/ che ha un inizio e una fine. / Non voglio scrivere un’elegia della vecchiaia, / solo dire che spingere le braccia dentro il freddo / è una prova che ha senso di trovare il verbo in una frase (…) ricorda quanta tenacia c’è voluta a decifrare / le mappe dentro alle parole». Ecco il legame, il trait d’union.La mappa delle parole – anche di quelle estinte, come la memoria franta – sono la coltre dell’esistere, il giudizio dell’ esperienza che si compone.Il cammino dell’Anedda diventa polifonia, quando sperimenta la voce, persino rauca e balbettante, dell’umanità in ricerca, quando vive la traccia scura e invisibile della morte. In quello spazio shakespeariano di non-ritorno, non conosciamo ancora il modo per far voltare la cara figura dei cari, la loro sospensione vicina.
Come può recuperare la poesia una materia invisibile e, solo apparentemente, spenta?. Con lo spazio del segno, con una memoria che non è un à rebours sentimentale, ma un recupero di origini, come quando da bambina sognava di cucire foglie di castagno per farne corone e, da grande, a sentire e respirare il soffio delle cose.
Ce lo ha insegnato lei con quella sua silloge del 2007 Dal balcone del corpo, a sporgerci nei respiri, a inseguire voci e visioni, a inchinarsi allo splendore del finito che smeriglia sull’infinito. Quel finito che sorprende e colpisce, sembra delle volte precipitare, come meridiano d’acqua, nel nostro tepore, nella nostra difesa muraria.
Gli oggetti che Anedda dispone in questo libro sono tracce che permettono il ritorno a casa, briciole di luce, si potrebbe azzardare. Anche quando espone vuote cornici, facce che abbracciano la Storia, ponti di immagine nel vuoto di cucine, stanze da letto, camere d’albergo. Lì si situa il suo scenario umano: «scuotere dalla tovaglia la paura insieme alle briciole del pane. / fare un orlo al dolore, posarlo sul mucchio dei panni da stirare / […] Contro il tempo trovammo l’arte dello spazio / la precisione che non permette alla mente di affondare». La sua fisionomia diviene il suo paesaggio, la sua liturgia panica che scompone e ricompone scarti, sommuove battiti, per levigare la stoffa e lucidare l’istante, come in Corsica 1980, vitalità emersa e tocco salvifico: «Poiché non spero eccomi nel lutto/ che solo qui chiamo con questo nome. / Punta di spine di cardo vorrei stringere il bruciore e tenerlo / come vita. / Poiché non spero più che avanzando nel mondo ci sia un / delta parlo una lingua di fosso seguo suoni di legno mentre/ il vento dilania l’incerata. / Poiché non spero più resto davanti alla mia forma/ sperando che trasmuti e il mare blu-cespuglio la scomponga».
Antonella Anedda, Salva con nome, Mondadori (Lo Specchio), 2012 pp.119