In questa nuova raccolta Da mani mortali, Biancamaria Frabotta, nata a Roma nel 1946, e docente di Letteratura contemporanea all’Università di Roma La Sapienza, raccoglie pienezze nascoste, incide nelle sue rapide, istantanee e improvvise, le minuzie della stoffa del reale.
È una poesia di grazia accesa. Attraverso un movimento di altezza e sintesi, essa compie il suo giro armonico ascendente, soffermandosi sulla materia dell’esistente.
Sembra, quasi, che il suo gesto poetico pronunci di continuo un confronto con il tessuto della precarietà, della irriducibilità umana, e meglio ancora, della creaturalità:
Un inferno nucleare scuote la stella / che scalda il nostro pagliericcio. / Metà del combustibile è andato. / Che ne è della Madonna di Piero / ormai prossima al parto, del dio / nascosto nel suo ventre, alla sinistra / di chi guarda, oltre le tende sollevate / con industriosa indifferenza, che ne / è dei due angeli inservienti. / Appaiono tutti così giovani. / Custodi di un’attesa ormai / sapientemente inattendibile / ciascuno testimone di sé stesso.
Il sentimento dell’esistere non si poggia su una sterile tensione ritorta, anzi nel microcosmo di un giardino, nella campagna aperta, nel «grande disordine del cielo», diventa crescita e cuore pulsante di una variazione di stagioni, di uno spostamento che ferma il tempo sul passo discreto delle cose, sulla musica dell’essere, festosa e dura: «Solo al tatto la riconosco quella pace truccata / che al mattino scuote la coperta dei sogni».
Nell’indecifrabilità di un’ombra larga, il suo viaggio all’interno del creato è una soglia di benedizione e di combinazione silente.
Come la poesia che si fa materia e dono, il cuore della poesia della Frabotta appartiene al bagliore di un’istantanea e si confronta con la forma, con la verbalità che ama i cambi, le distonie, le metamorfosi: « Vorrei che le avesse portate / fin qui il vento, queste piume. / Un vento grigio sotto la mimosa. / Ma sono qui da tanto, pegno / di un gioco di pazienza / tra la tortora e la volpe».
I passi che si confrontano con care immagini, come quelle di Giorgio Caproni o Giovanna Sicari, non censura i cambiamenti, disastrosi o splendenti, dell’uomo, anzi si impasta nel ritmo infinito, con le sue articolazioni, i suoi movimenti ampi e sfarzosi, la «voce remota dal paradiso».
La sfrontatezza vitale di questa poesia sorgiva offre il fianco al divenire della forma, delle forme e della loro fisionomia sfocata, laddove una «lingua spenta sussurra»: «finché le forze reggeranno e a vita non s’oppone verità / dura il loro essere indaffarato, gli eterni lavori dei nidi finché disabitati, alle tormente d’inverno, li consegneranno».
Con cosa si confronta la poesia quando mette in scena la precarietà immensa e lucente?. Con l’essere uomini innanzitutto.
E poi con la stanzialità fervida e vivente di ciò che ci circonda, con lo sguardo attonito e fremente di nuovi climi,veggenze, memoria: «Sorgeva da un angolo lontano del campo / ma era come se sorgesse da ogni angolo / su quei due che la vedono senza voltarsi. / Bianca e nera, quanto la sua lontananza. / E splendenti, nella sventura dei crateri / miliardi di occhi catturati a spiarla».
Il margine disadorno dell’incompletezza si confronta con la finitudine che si consegna, che offre il suo abbraccio alla memoria, alla profezia sognata sulla scena del mondo.
In queste manifestazioni vitali e propulsive, anche la poesia stessa si porge, senza inflessioni, alla traccia di chi vuole contemplarla, al confine che conosce i sigilli della «storia senza storia».
Si tratta di frequentare la semina per tramandarla, porgerla alla materia futura, non disperderla negli accenni furiosi del tempo che tutto muta.
Le fratture del tempo, il miracolo delle lingue accomunano fertilità e gesti lucenti.
Avvertire la luce che irradia la nostra dignità è il segmento che si incide come germoglio vivo, come «abuso di luce tra i rami».
Come staccarsi dalla propria ombra. Perché i poeti, «acquattati nel pelo del mondo», «se ne stanno passivi / nelle ore dolci dei vivi», «in eterno costretti / a pendolare / sulla stessa tratta».
La tratta della poesia si chiama umanità, con tutte le declinazioni che l’esistenza riflette, propaga, declama, come recita la quarta di copertina:
Un’opera che si confronta, passo su passo, con la misteriosa intelligenza della natura e dei suoi vari abitatori: vegetazione e animali di una vita che si manifesta nell’infinito articolarsi infinitesimale dei suoi ritmi e delle sue complesse variazioni stagionali, dei suoi aromi e della sua musica discreta. Mentre intorno si allarga l’ombra di un’ambigua apparenza indecifrabile che accoglie nelle sue mutazioni le tracce non sempre benefiche dell’opera umana, talvolta irretendola nel sogno di un dio stupito dalla “felice combinazione” del creato, quasi un adolescente solitario e immalinconito dalla diffidenza delle sue creature mortali.
È un itinerario discreto. In questo bagliore smosso l’attenzione alle figure, la paziente osservazione della scena del mondo, vivono di un segreto di meditazione e sguardo chiaro, laddove il rimando lirico raggiunge una domanda di senso: «E se fosse stata soltanto rimandata / come una lettera lasciata a mezzo / la mia divina creazione / dell’esistenza animale / la felice combinazione / io che non ho tempo / di dare importanza al tempo. / Io per sempre fuori di me».
Il greto di Biancamaria Frabotta, pur intridendo la fecondità della precarietà, dell’inevitabilità di un limite, non si rintana nella sosta lamentosa e indocile, ma vibra di umanità gioiosa, di un gesto breve e alto, che percorre le volte incandescenti di un’umanità e di un fuoco acceso, perché «sarà la luna che meglio conosco / ad accompagnarmi / nel viaggio a rovescio».
BIANCAMARIA FRABOTTA
Da mani mortali
Mondadori, 2012, pp. 158, euro 15