La poesia di E.E.Cummings (1894-1962) è una folgore visuale. Una visualità originale e sperimentale, al tempo stesso, nutrita da una furiosa forza di attrazione del reale che, come scrisse Salvatore Quasimodo, primo traduttore delle sue liriche, “si estende continuamente sugli oggetti richiamati dalla memoria o visivi”.
Nell’aspetto visivo è rintracciabile il suo disegno di parole e la sua traccia. Nativo di Cambridge, figlio di un pastore della Chiesa unitaria e docente di sociologia ad Harvard e di Rebecca Haswell Clarcke, Edward Estlin Cummings, espressione iperbolica del modernismo americano e caposcuola della Visual Poetry, racconta un paradigma di immagine e fusione di arte, di sincretismo convenzionale e sperimentale, di rottura e tradizione, che raccoglie il metro di un movimento e di uno spazio vertiginoso: «La Nuova Arte ha molti rami – pittura, scultura, architettura, teatro, letteratura, e musica. In ciascuno di questi v’è un’evoluzione chiaramente percepibile dai modelli; in nessuno v’è traccia di quella anormalità, o incoerenza, di cui è appassionato il critico insensibile facendone il soggetto di invettive contro il nuovo ordine. Il mio fine è delineare brevemente gli sviluppi paralleli della Nuova Arte nella pittura, nella musica, e nella letteratura».
Se davvero il processo creativo di Cummings abbraccia anarchie creative, innovazioni aritmetiche, polinguilismo, ricchezze espressive, parimenti si verifica un “trasferimento di sensi” in ciò che scriveva Nathaniel Burt, quando lo inseriva in quei poeti “ribelli, dediti alla protesta, critici della vita e della letteratura dei loro tempi e luoghi”.
La sua avanguardia adopera il vocabolo per declinarlo nelle sue sfumature, sospende i concetti nella punteggiatura e sperimenta l’insanabile ricchezza del reale.
Paola Loreto, in un articolo apparso sul mensile Poesia del luglio/agosto 2009, scriveva che la capacità sperimentale del poeta diventa “immediata flessibilità dello stile, volta a cogliere e comunicare la percezione della vita in atto”: «si piegò il tuo corpo lucente/ quando il mio cuore/ cantò fra i tuoi seni/ stupendi/ buio e bellezza di stelle/ sulla mia bocca petali danzanti/ agli occhi miei/ e in fondo/ ai melodiosi meandri/ della mia anima/ parlò/ il verde-/festante pallido-/ calante irrevocabile/mare/ io ti conobbi morte».
Cummings sceglie le campiture della lingua per rappresentare la levità, la profondità e il ritmo di natura e spazio-tempo.
Percorre dislocazioni e intervalli, in cui la vertigine inattesa del vuoto cambia prospettive di sguardo, conciliandosi inestricabilmente con la pittura.
Nel vortice, la sua forza e una sconfitta irrimediabile. Quando, dopo gli studi ad Harvard, visse la tragica esperienza della Prima Guerra Mondiale e l’accusa ingiusta di spionaggio, confluite nel romanzo The Enormous room (La stanza enorme, 1922) e successivamente lasciando tracce nel diario Enni (1933), l’artificio della parola si riempie di capovolgimenti, fratture, scomposizioni. Un frammento che diventa labirinto, un’ enigma che si nutre di percezione, misurandosi con «rose e locomotive»: «così passa tutto ciò che luccica/ nessun indugio nessun ri-/ pensamento sia fra/ di noi O/ anima mia, ma dritti/ gioiosi calpestando ogni paura/ i volti/ cinti di gloria/ conduci/ noi nel/ greve/precipite/ buio».
Scrive Edmund Wilson:“Dietro la barriera della strana punteggiatura e della voluta disorganizzazione, le commozioni di Edward Estlin Cummings sono familiari e semplici, anzi talvolta persino banali. C’è l’adorazione del nuovo amore, l’eccitazione per l’arrivo della primavera, il senso della mortalità della carne, del fatto che le rose diventino cenere”.
Pur percorrendo il filo sottile del sentimentalismo e del madrigalismo, la sua poesia diviene autentica quando riesce a liberarsi dalle costrizioni, sfociando nell’incanto e nello sbalordimento e quando infine trascrive l’avvenimento che accade, la sua densità e il suo spezzamento: «sazio veloci/ ricordi/ come fiori tremendi/ si/ leveranno, lentamente/ torneranno sulle rosse/ labbra prescelte/ limpide visioni)».
Tutte le sue raccolte, da Tulipani e camini (1923) a Xaipe (1950), passando per 95 poems (1958) e 73 poems (1963), testimoniano un vortice compiuto, che si promette di far aderire classicità e presente e che tenta di percorrere strade nuove, non asfissiate dall’alienazione della contemporaneità e dal senso del limite.
Diviene vera quando affronta il dono sensuale dell’essere e, con effetti iconici e spaziali, appare materia di discorso umbratile e vigoroso, funambolismo autobiografico e persino ironia, che non risparmia i miti della storia americana o i poeti vittoriani.
Scrive Franco Buffoni: “Il solo principio vitale per Cummings è nel vero: il grande «io sono» in grado di creare il momento, vivificandolo in quello che il poeta definisce «la gloria del presente indicativo». Al fondo c’è sempre (…) l’importanza assoluta del «per sé uno» di tutti i tipi di scelte individuali”.
La potenza del discorso poetico affronta il magma delle trame sensuali, si insinua nel braccio fervido di un canto d’amore: «Recita/ sul suo/ corpo/ della pioggia/ nelle perle il distaccato murmure».
Nell’avvenimento poetico il vertice dell’umano conosce il canto potente del tempo, amplia lo squarcio delle linee d’orizzonte, per vibrare e vivere il suo respiro: «il vento è una Signora dagli/ occhi sottili e luminosi (che/ si muove) al tramonto/ e che-tocca-i colli/ senza motivo» o ancora: «Signora del Silenzio/ dalla seducente rete del/ tuo corpo/ s’alzo/ nella concreta/ notte/ un/ uccello veloce/ (…) e subito/ piedi assolati/ conducono/ la sferzante beltà dell’aurora».
La sua genesi ha bisogno di sperimentare e di sferzare la lingua, per rincorrere la potenza e il clamore di un atto e di una preghiera, come amore insonne: «entra/ padrone dagli occhi cenerini/ pure/ per i dolci portali/ del mio cuore e/ prendi/ la/ rosa,/ che perfetta/ è/Con mani assassine».
In questa “dantesca fusione tra corpo e anima che sublima per materializzarsi in elementi che discendono sulla terra irradiando la sua luce nell’innamoramento nascente ed eterno”, come scrive in un bellissimo articolo Sergio Di Giacomo, si ritrova il mistero inimmaginabile delle sue luci che germinano in una memoria mendicante d’amore, volata sulla lingua, per liberarsi del tutto.