Nato a Gorizia nel 1887, ma formatosi a Firenze, dove pensava di potersi dedicare completamente alla pittura, alla poesia e alla filosofia greca, Carlo Michelstaedter ha espresso, nel suo slancio materico, una vertigine di abisso e di grido. La sua tragica esistenza, terminata con un colpo di rivoltella, all’età di appena ventitré anni, è testimonianza, quasi isolata, di un canto roco e di un frammento di specchi spezzati.
In quel breve arco elabora la sua folgorante tesi di laurea mai discussa La persuasione e la rettorica, che muove le sue linee da Platone e Aristotele, incentrata sulla strana nostalgia di terra, di un volo di aerostato slanciato verso l’Assoluto. «Ma ora qui che aspetto, e la mia vita perché non vive, perché non avviene?». Chiedeva questo la sua poesia, come un ritaglio in un vortice bruno, in una prospettiva dimezzata di illusione e slargo vitale: «Nei terrori della notte e della solitudine ognuno lo prova, ma nessuno lo confessa, che alla luce del giorno si dice contento e sufficiente e soddisfatto di sè». La persuasione consiste nel superamento delle illusioni e della solitudine del mondo, e nel «possesso di se stesso», poiché «Ognuno è solo e non può sperar aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t’è dato». La domanda di salvezza viene azzerata da una profonda solitudine di superficie, che strazia il suo deserto: «Passa la gioia, passa il dolore, / accettate la vostra sorte,/ ogni cosa che vive muore/ e nessuna cosa vince la morte.// Ritornate alla via consueta/ e godete di ciò che v’è dato:/ non v’è un fine, non v’è una meta/ per chi è preda del passato. // Ritornate al noto giaciglio/ alle dolci e care cose/ ritornate alle mani amorose/ allo sguardo che trema per voi/ a coloro che il primo passo/ vi mossero il primo accento, / che vi diedero il nutrimento/ che vi crebbe la membra e il cor». Il persuaso risponde con il coraggio a questa desolante scrematura di paesaggio. Il coraggio di sopportare il dolore, di navigare in mare aperto, poichè la sua stessa furia diviene il suo porto.
Ecco l’esito della sua lotta e, forse non solo ciò che scrisse Giovanni Papini un “suicidio metafisico”. Era il dramma di una finitudine, il limite che sopporta il limite, affacciato sul ponte dell’abisso. Come se la vita, portasse il gemito di una fine nel suo grembo («Ma la vita, / la vita non è vita, / se la morte / la morte è nella vita…»), il mucchio dei suoi fantasmi menzogneri, il grido di una estraneità. Perché la vita è desiderosa, bisognosa di tutto, promessa, qui infranta, di un sentirsi vivo: «Ai bisogni corrispondono le promesse della realtà come valori. (Chi non ha più bisogni – non ha più valori – non ha più realtà- non ha più coscienza- non parla né di vita né di morte – ma muore senza accorgersi. Fino a che vive: vuole la felicità, postula un valore per il quale gli valga vivere. Egli chiede la subordinazione dei valori della vita a un valore più grande».
Ma è un bisogno inappagato e una brama infausta. L’amore, la morte, il nulla dominano, leopardianamente, il suggello del proprio universo. Come il vicolo cieco delle sue relazioni: Nadia, giovane russa a cui impartisce lezioni di italiano che finirà per togliersi la vita poco dopo – segnandolo indelebilmente-, Iolanda, Senia e gli scontri con il padre. La sua crisalide cerca di plasmare il suo compimento, quasi svela, nascondendolo, il suo ciclo vitale. Il colloquio con la finitudine è l’esito e l’indizio di un contrasto insanabile sul senso dell’essere: «tu mi sei cara mille volte, o morte, / che il sonno verserai senza risveglio/ su quest’occhio che sa di non vedere, / sì che l’oscurità per me sia spenta».
Sia Il dialogo della salute, una sorta di operetta morale, sia le sue poesie frequentano la diaspora di una vita con un grido dentro (Rebora?), con un ‘morire’ che non trova lo sbocco e l’apertura di una domanda conclusa: «Ahi, quanto pur m’illuse la mortal/ la mia vista che di fuor ci finge certo/ quanto ci manca sol perché ci manca».
Al mare è affidata la sua cetra ruvida, la sua suggestione intensa e, per dirla alla Trakl “ l’anima straniera sulla terra”: «Dalla pace del mare lontano / dalle verdi trasparenze dell’onde / dalle lucenti grotte profonde / dal silenzio senza richiamo / Itti e Senia dal Regno del mare / sul suolo triste sotto il sole avaro / Itti e Senia si risvegliaro / dei mortali a vivere la morte».
Il «libero mare» svela il suo volto e il suo mito originario, compendia la sua anima e il suo travaglio all’infinito: «e la vasta voce del mare / al loro cuore soffocato / lontane suscitava ignote voci, / altra patria, altra casa, un altro altare / un’altra pace nel lontano mare».
Anche il possesso completo dell’amata è un rialzo al limite del suo cuore inquieto, come nel mito di Orfeo ed Euridice, egli rifiuta il tempo storico, a favore della permanenza extra-tempo o oltre tempo, la consistenza e il viaggio: «E l’occhio stanco e ardente la tenebra / pur mira densa e inesorata quale / si chiuse innanzi all’antico cantore / che a Euridice si volse ed Euridice / nella notte infernale risospinse».
Poi ecco apparire il sogno. Ella compare, come un piccolo uccello ripiegato e conchiuso: « Ma ripiegata in piccolo sedile, / come un uccello che ferito a morte / l’ultima vita con l’ali ripara, / d’un velo bianco ti facevi schermo / al freddo e alla vicina fredda morte». Cerca di raggiungerla oltre le rive, ma non riesce a toccarla: «Che io debba naufragar senza lottare / fra la miseria dei battuti scogli / presso al porto esecrato, come un vile / senza esser giunto al mare / e te lasciando sola e distrutta dopo il sogno infranto / fra le stesse miserie?».
La sua Argia è lontana, il poeta è perso in un distacco di nausee invincibili e opprimenti. Allora diventa geloso, proclama il suo insaziabile desiderio, perché se la vera vita ci fosse, mai egli sentirebbe così prepotentemente questa brama: «L’assoluto, non l’ho mai conosciuto, ma lo conosco così come chi soffre d’insonnia conosce il sonno, come chi guarda l’oscurità conosce la luce».
La visione di Michelstaedter raggiunge il mare dell’essere e quello del Nulla. Si fa fiume per sfociare, riempie il suo corso senza quiete, come annuncio che divampa. Libero.