I testi di Elizabeth Barrett Browning (1806-1861) recano in grembo un dolente e sbandato diario, dove la fragilità immaginifica si accompagna alla fragilità del buio, al cardine della voce racchiusa.
La vicenda, la fuga e il matrimonio segreto di Elizabeth con il poeta Robert Browning, condensa gli echi della sua biografia, come quella scritta da Virginia Wolf e che, per un attimo, allontana lo stereotipo di una donna fragile e cagionevole amata dai vittoriani, per nulla incorporata nel melenso eccesso del sentimentalismo commerciale.
L’autobiografia che emerge dai suoi Sonetti portoghesi (1850), offre uno spazio ancora più ampio al celebre epistolario tra lei e il marito, ricco già di tensione e sfida intellettuale e morale, come testimonia un bellissimo saggio di Silvia Iannello, edito di recente da Aracne (2012).
La folla di allusioni, che costituisce la spina dorsale del suo gesto, guarda con perspicacia a Milton, Shakespeare e Dante, ma anche alla poesia e mitologia pastorale greca, riconoscendo una cifra di elezione e un tempo non istintivo, personalissimo e inespugnabile.
La variazione del discorso amoroso racchiude canto e mormorio. Entrambi trasgrediscono gli stilemi vittoriani e presentano una goccia ampia di umiltà e devozione, come desiderio e anelito soffuso.
Poesia visionaria e intima che implora totalità e congiungimento, come l’ornamento dell’amore che non ama misure: «Se devi amarmi, sia solo per amore/ e nient’altro. Non dire/ “L’amo per quel sorriso, la figura, per la/ Dizione gentile, per lo spirito arguto/ In cui mi riconosco, che in verità un giorno/ Mi trasmise un piacevole senso di armonia” (…) Ma amami soltanto per amore, e così sempre/ Potrai amarmi, nell’eternità dell’amore».
Lo sforzo della composizione non lascia il tempo al riparo, alla coperta lunga degli stereotipi, ma tende alla dismisura dell’ abbandono: «…il silenzio del mio essere donna/ Affidi il mio amore di donna alla tua fede».
In questa dismisura disarmata, anche dinanzi all’amore-morte, l’elegia celebra un amore vivo che unisce rigenerazione e conoscenza, tensione e dialettica, conflitto e accesso: «Un povero cantore che ramingo canta/ Al buio, appoggiato al cipresso».
La sospensione del dolore abbraccia lo scompenso e lo scompiglio di una transvalutazione di valori e ruoli, minacciati e raminghi.
Lo squilibrio del sentimento attende guardingo gli avvenimenti, promette un corpo a corpo con la sua materia, attraverso una lingua smaccatamente panica.
Indifeso si abbandona: «a te/ io guardo, a te, vedendo con l’amore/ la fine dell’amore, e al di là della memoria/ ascoltando l’oblio; come chi in alto/ sieda e fissi, oltre i fiumi, il mare amaro.»
Una destinazione strana e un cambiamento di prospettiva che avvince e affida nuova compagnia:«Io che cercavo Dio, trovai te!», oppure: «Non sono del tuo valore né del tuo rango!/ Eppure, poiché ti amo, ottengo dallo stesso/ Amore una grazia che ha in sé la sua ragione:/ Vivere per amare».
Il duro attraversamento di Elizabeth subisce spesso improvvise trasformazioni immaginative o anche allontanamenti infelici di desiderio, come se il fondo dell’essere contenesse una crisi irrisolta, un respiro che sdoppia e permea, come scrive Biancamaria Rizzardi, parlando di ogni discostamento della poetessa dalla fragilità dell’imitazione: “E nulla di tutto ciò è presente nella voce della poetessa, che è squisitamente femminile e si arricchisce, in ogni suono e immagine, delle più tenui sfumature di un sentire forte e profondo. Pare dunque più opportuno, per comprendere appieno la portata rivoluzionaria della sua poetica, parlare piuttosto di un raddoppiamento di ruoli”.
Il suo grido è un viaggio di conoscenza, sperduto e vicino, che trova rilancio nel bilanciamento della reciprocità, fusa in un unico nutrimento di alchimia: «…Tu sei/ In ciò che faccio e sogno, come il vino / sa delle sue uve. E quando imploro/ dio per me, Egli ode il tuo nome, / e nei miei occhi vede le lacrime di due».
Persino il bordo dell’assenza si nutre di concretezza, diventa quotidiana vastità, anatomia affettiva che cerca di creare una possibile veste di luogo: «Un luogo ove stare e amare per un giorno,/ Con le tenebre e l’ora fatale che lo circondano.».
La vastità del suo canto scava l’abisso, muovendosi tra dubbi e lamenti inaccessibili, tempo che sfugge inesorabile e pietà implorata, come segno di un percorso e tacca che si muove sulle mete, racchiuse in una eternità d’amore: «Il volto del mondo intero, penso, è altro/ da che sentii i passi dell’anima tua/ accanto a me muoversi quieti, oh, quieti/ insinuandosi fra me e il tremendo bordo/ d’ovvia morte, ov’io d’affondar pensando/ d’amor fui vinta e tutto di vita appresi/ in ritmo nuovo». L’io lirico si insinua nel desiderio di una richiesta eterna, nella scommessa della immaginazione che diventa luminosa impenetrabilità: «Ti penso…e i miei pensieri sbocciano avvinti/ A te, come viti selvatiche strette all’albero,/ …scrolla i rami e metti a nudo il tronco, / e lascia che questi verdi fastelli che t’avvinghiano, / pesanti ricadano a terra.». Per diventare materia umana, vitale e viva, il movimento dell’amore ha bisogno di negarsi, di nascondersi e di centellinare il suo mostrarsi, per tentare di superare il suo ostacolo e divenire metafisica umana e slancio umbratile. Come in un agone lungo e solitario, l’anima di Elizabeth Browning sfoglia la sua lotta sempiterna con il «velo dipinto», affermando, nel gesto largo della sua parola, l’infinita rete dello spirito di «un’ape nel cristallo», come segna giustamente ancora la Rizzardi: “E l’Amore è per Elizabeth prima di tutto libertà. La libertà insita nell’uomo e nella donna, la libertà di pensare, porta l’autrice, facendole oltrepassare gli schemi tradizionali per i quali non era concepibile che una moglie e madre esemplare desiderasse essere una poetessa (…)”. Di questo fuoco intelligibile ci fa dono, come ribellione interiore, come spasimo scosso e ferito, che destituisce ogni caratteristica desueta, per farsi sorprendente accensione umana, anche nella ferocia dell’abisso.