Stefan George (1868-1933), uno dei più grandi poeti del simbolismo tedesco, assieme a Hugo von Hofmannstahl e Rainer Maria Rilke, ha ricevuto, negli ultimi anni, dalla critica una notevole ripresa di interesse, come testimoniano gli acuti saggi di Maurizio Pirro, Giancarlo Lacchin e Margherita Versari, sulla sua opera filosofica e poetica.
Il sospetto di estetismo estremo e l’acutizzarsi di una nue Dichtung nazionale, se da un lato riesplora la figura dell’artista in una controversa e originale rielaborazione, dall’altro tende al rinvenimento della ideologia spirituale di una piccola comunità di artisti (il George-Kreis con la rivista «Blätter fur die Kunst») che propongono il rinnovamento artistico attraverso un progetto linguistico che spinge l’idea figurativa a un nuovo sentimento esistenziale, a una nuova prospettiva vivente.
Il «suo impressionismo smemorante, rivolto a dissolvere il rapporto logico-concettuale che normalmente collega immagini e pensieri, per risolverli, quelle e questi, rispettivamente in percezioni vaghissime e in slanci musicali», come scrive Giuseppe Bevilacqua, tende a una valorizzazione semantica, in cui la rima e le sue concomitanze acquistano un valore ben preciso perché, continua Bevilacqua, «sovrapponendo al discorso una “specie di contro-schema fissativo di implicazione alogica”, secondo la felice formula del Wimsatt, mirano a un effetto derealizzante. Qui “il significato della forma” è la negazione dell’oggettività del mondo: l’impressionismo trascende quasi in una metafisica negativa».
Se per Friedrich Gundolf, allievo di George la naturale capacità del linguaggio di rinnovarsi esprime lo spirito del tempo, la poetica e l’arte del poeta tedesco si avvale del valore flessivo della lingua, del valore ieratico della gestualità, del “doricismo di un simbolismo armonico che porta all’estremità la capacità dell’arte di dare nuovo ordine di senso, alla contemplazione dell’idea e del senso e della dismisura della enunciazione mitopoietica.
La suggestione segreta della poesia di George frequenta i simbolisti francesi, come Mallarmè e Verlaine, la propulsione figurativa di Swinsburne e dei preraffaelliti, impone una intensa ierofania orfica.
La trasformazione della parola avviene nella montatura o nella messa in scena di uno spazio di scrittura che rappresenta i simboli, esalta il carattere precipuo del mito, rivisita la forma linguistica fino alla ricchezza delle possibilità espressive.
La «suprema gioia spirituale», caratterizzata dalla più pura immaterialità, tende persino nelle sue fertili traduzioni di Dante, Shakespeare e Baudelaire, a imporre l’«originaria e pura gioia delle forme».
Scrive Gottfried Benn: «La forma è appunto la poesia. I contenuti di una poesia [...] li hanno tutti [...] ma la lirica ne vien fuori solo se tutto sfocia in una forma che renda autoctono questo contenuto, lo regga, crei da esso, con le parole, un incantesimo».
L’espressione dell’esistenza del mondo si afferma nella sua esperienza, perché, come annota Leone Traverso, «per lui l’uomo è veramente la misura di tutte le cose, non nel senso usurpato dei sofisti, ma nella coscienza goethiana di un’armonia dell’uomo col mondo. Opera dell’uomo (dell’artista) è dare la forma del suo spirito, assorto in una contemplazione amorosa, alla natura per sé inanimata».
La vivezza del senso di mistero del mondo è rintracciabile, pertanto, solo nella citazione di una forma superiore di «quell’Eden stupendo che è il solo a essere eterno».
L’incontro tra il poeta e l’origine dell’agire poetico è reso possibile dal passaggio di citazione e riformulazioni simboliche, allusive e essenziali, che veicolano il gesto poetico solo attraverso una diversa forma cosmica di mitopoiesi.
La prospettiva della espressività cosmica, associata al paradigma dionisiaco, crea una riscoperta edenica, come avviene in Algabal, che destina obbedienza e speranza.
L’ordito amoroso di George sembra nascondersi in una riflessione meta-amorosa, sollecita espansioni transindividuali che si manifestano nella storia attraverso le pulsioni, gli impulsi dell’oscuro e dell’inconscio, che veicolano e salvano l’opera, destinandola all’arte immortale.
La ricchezza di tono e la profondità di sfumature naturali destinano una fedeltà e una segretezza di movimento d’anima, e la stessa fusione di uomo e natura coinvolge dedizioni reciproche, che si annullano vicendevolmente nell’equilibrio intimo, nel soffio sovrumano del crepuscolo.
La solitudine luttuosa della sua anima soffre di una mancata rivelazione e non ha più la tersa immagine della natura, ora adombrata e offuscata in una danza triste.
L’isolamento inviolabile vive dell’attesa, dell’aria rarefatta degli azzurri del cielo, screziati in pulviscoli dorati, dove l’annuncio del mondo è missione angelica, speculare doppiezza poetica che contiene il dramma della propria legge artistica e artificiale, protesa e in divenire, come scrive Giancarlo Lacchin: «è questa la mitologia georgeana di Maximin, il “Nuovo Dio” apparso ma al contempo voluto, che “perfeziona fino al prodigio la propria bellezza” e la cui parola, come “forza trasformatrice”, infiamma il poeta-profeta, che di tale forma superiore diviene citazione vivente. Il rapporto di devozione che la citazione instaura fra l’uomo e il divino, vive nel riconoscimento di una forza originaria superiore che vive e si manifesta nella lode che di essa viene cantata, nell’esaltazione della sua forma e del suo agire: la poesia si fa linguaggio di una nuova religione, canto di lode che fonda un nuovo stile liturgico e celebrativo». La zona liminare liturgico-religiosa scopre la sua forza germinativa in un rapimento trasfuso e transitato: «Là salgono le stelle, / voci nel canto; / là cadono le stelle / mutando il canto. / Che tu bello sei / guida i mondi il corso., / Se mio tu sei, / piego il loro corso». Il caos elementare, il dominio e la ricreazione del mondo nella voce del poeta, trasformano nuove armonie in grandi forze visive, in grandi vibrazioni di sogno e morte, di tempo e spazio. La ricerca della luce si apre al prodigio di una alta speranza immanente che colora la leggenda e la storia, perché «Io so come amo solo mentre canto»: «Tu conosci il mondo del sogno: tu lo comprenderai. / Io non ti voglio con gesto diurno forzare / né tu per consiglio diurno mi conquisterai. / Ma prima deve il folto vento dei sogni spirare».
Nella vaghezza oscura di un’ombra definita il suo canto è spesso grido iniziatico, traccia sbandata di uno sfondo che annuncia avventi e preludi sacri, come visione oltre-mondo della parola vivente, come inno oracolare di un florido pellegrinaggio indomito, verso il profondo mistero di un miracolo romito.