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La gioia infinitesimale di Pier Luigi Bacchini

Bacchini

 

La poesia di Pier Luigi Bacchini (1927), raccoglie l’insondabile promessa della gioia, per la bellezza della natura, per il profumo della realtà e per i cicli dell’esistente.

Il viaggio della sua storia poetica, iniziato nel 1956 con Dal silenzio d’un nulla, si dipana nell’epifania delle cose che accadono, dalla botanica ai minerali, dalla zoologia fino alle mutazioni della natura. Il poeta si accentra in questa compartecipazione memorativa e intensa e raccoglie il suo destino vivente. La sua ricerca biologica, nell’isola poetica parmigiana a cui egli appartiene, è intessuta di un’appartenenza di ricerca vitale ed esistenziale, tout court, che se da un lato si fa promessa di evento, dall’altro persegue la sua attrazione verso l’assoluto e la sua precisione di linea: «Fin da bambino ho sempre sentito il desiderio di dire parole che fossero la materia della cosa. Mia nonna suonava il pianoforte e io le chiedevo «Suonami il tavolo, suonami il lampadario» intendevo dire che mi sarebbe piaciuto con-prendere quegli oggetti, esprimerli dall’interno. […] Andando avanti negli anni ho capito che gli unici vocaboli che potevano penetrare nella cosa, nell’oggetto, nella materia, erano quelli della parola scientifica». Il ventisettenne poeta vive la fenomenologia come compiuta cognizione, mostra se stesso nella autodeterminazione che scompagina il sistema borghese dell’epoca, proclama il suo atto di nascita in una tradizione impregnata che si carica per rompersi e sfrangiarsi. Alberto Bertoni, a proposito di questo inizio di Bacchini, scrive che in lui «le due pulsioni, quella per gli studi in medicina […] e quella per l’ascolto delle lezioni di Flora presso la facoltà bolognese di Lettere, finirono per elidersi, non senza una mediazione del paesaggio emiliano, lungo il tragitto fra Parma e Bologna, e con la sensazione che il suo apprendistato conoscitivo procedesse contemporaneamente su un doppio binario, che non lo portò alla laurea, ma a una formazione culturale nient’affatto scontata o confusa».

È nella dimensione del limite, della morte e della precarietà che Bacchini tenta il suo percorso, finendo per celebrare, allo stesso tempo, la pulsione vitalista, la ribellione e la propensione alla raffigurazione mistica e alla propensione erotica forte e interdetta.

Nella seconda raccolta del 1968, dal titolo Canti familiari, egli rappresenta luoghi e persone care, intrecciati agli eventi storici universali. La rappresentazione, intima nella vertigine passata, solleva figure in una densa aura di luce familiare. La vita rurale, i contadini, la casa natale, la collina affermano la positività di una prospettiva arcadica che promette coltri e ricordi, memorie di persone mancate e radicate nel nutrimento affettivo.

Il passato si immobilizza per sottrarsi all’oblio, le stagioni, il lavoro e la vita dei campi colorano la prospettiva poetica in una fronda pascoliana elegiaca e vaga. Il ritorno sui luoghi afferma, come scrive Giorgio Cusatelli, «un contenimento dell’abbandono elegiaco, dell’abbandono lirico che, appena tende a prendere la mano al poeta, viene represso e trattenuto». La concretezza dell’oblio e il recupero è attraversato dalla modulazione della gioia del vivere e dalla felicità vissuta e non percepita: «Avevo un pozzo, e mi è rimasto il grido / della carrucola, il tonfo / del secchio gelido. / S’incontravano branchetti di pernici, che subito / sbattevano in volo e i biondi fagiani. / Il grano d’ogni annata, il carico / della vigna, tutto il fieno, il legname: / la povera ricchezza della terra / ho perduto, cari luoghi / dove piange col vento / il ricordo dei miei vecchi».

La lontananza racchiude l’io lirico e approda alla dialettica dell’assunto scientifico. Lo sguardo al passato fissa lo spazio di un mondo vergine e plasma il ritorno e il ricordo, divenuti immobili e presenti, coglie gli aspetti della vita vegetale che sbocciano nell’universale del creato e segna la direzione di una meta placida e arcadica. Pertanto, la sua parola si affida alla realtà, si lega alle cose. La svolta biologica che contorna Distanze fioriture (1981) prende le mosse dall’abbandono del poeta degli studi di medicina e forgia la sua istanza: «Bacchini non ha svoltato dal suo cammino, non è uscito dalla sua piccola, infinita, patria ma vi si è radicato anche più, lasciando che le radici […] entrassero più a fondo, si diramassero più in là, alla ricerca di nutrimento» (A.Bertolucci)

La destrutturazione della linearità testuale soggiace alla traduzione assoluta e univoca della realtà e la natura rappresenta la vertigine in fiore dello stupore. La sua pervasività compenetrante si afferma nell’osservazione che riscopre la meraviglia, nel linguaggio che tocca gli eventi naturali e le rigenerazioni dell’esistente, nelle forme e nelle mutazioni che si dispiegano nello sforzo e nel logos biotico. Scrive Paolo Lagazzi: «Il risultato – di grande perfezione figurativa, di una nettezza da atlante botanico o mineralogico, appunto-  è la riduzione del mondo a un grande archivio barocco di forme, in cui una parte sempre più ridotta è assegnata alle pretese di ogni possibile io lirico: a meno che la perdita personale dell’individualità non trovi una sorta di compenso nel dono vertiginoso dell’immedesimazione naturale (non più in un senso affettuosamente linguistico, cioè metaforico, ma «reale» materialmente referenziale). Così per esempio l’orecchio del poeta diventa una conchiglia, chiusa ai suoni delle stagioni familiari e alle trame verbali tessute dal vento sul grande scenario comune della pianura (…il vento era suono, / non portava parole…), aperta solo agli echi puri e remoti, silenziosi come ultrasuoni – delle ere geologiche. Il punto ideale di attrazione è, per questa parola sempre meno umana, una memoria del mondo graffita, incisa nel silenzio della materia».

Egli stesso dirà a Sabrina Baratta nel 2005: «L’aspetto grafico in poesia è insostituibile, importante quanto l’aspetto vocale, ritmico, è dalla giacitura del vocabolo, che spicca lungo il ritmo del corpo del verso, che si intende e si penetra la poesia. Per me ogni parola delle poesie di Petrarca è come una pennellata sulla tela della pagina bianca e alla sovrana cantabilità dei suoi componimenti si aggiungono […] luoghi, seni, angoli come mensole, cune, cavità che costituiscono una continua espressione pittorica, ogni parola è un colore, ogni verso un disegno e quindi l’intera poesia, un magistrale dipinto, una continua espressione poetica, naturalmente per un occhio ben educato, dove ci si incanta e si è rapiti in un amoroso, sebbene dolente, mondo femminile della natura. Ogni parola è una miniatura». La morte e il rigenerarsi della vita si uniscono spesso in una dimensione astorica. Nell’ambito vegetale che unisce (si pensi a Visi e foglie) quello mineralogico e zoologico, si evidenzia la stretta vicinanza del poeta dell’uomo con la natura in una «Originaria identità / che nella materia s’irradia», perché «Ho considerato la mia natura fraterna coi sassi / con gli strati sotterranei vanamente / conservatori di ricchezza e fraterna / con la moltitudine vegetale / e animale». È il tripudio dell’amante, soggetto a selezione, adattamento e mutazione. I visi, i volti umani si addensano nella loro fisicità e nella loro immersione cosmica, diffondono la loro campitura amorosa e tenera nel crepitìo delle cose

Le sue Scritture vegetali (1999) si sospendono nell’osservazione, nella gratuità della bellezza verso l’ordine della realtà, verso il mistero di una finalistica esperienza naturale. L’ansia conoscitiva della sua metafisica è permeata non solo dall’intelligenza ordinatrice («Bisogna inginocchiarsi nell’erba alta / quando tira il vento così che l’erba superi la nostra testa / e le vipere e gli orbettini scivolino / tra i nostri piedi, e allora / nell’energia contorta dei tuoi spaventevoli rami, / si ascolta la voce della scienza, / che ha il volto rupestre di Dio»), ma giunge a raccogliere e analizzare la complessità delle leggi che regolano le forme vitali ed umane. L’affresco naturale che ne consegue abbraccia l’io lirico in un ambiente di strati inferi, elementi atmosferici e stupefatta finitudine, feroci agguati d’amore e scatenate giovinezze. Persino l’adesione al dettato poetico breve, come accade in Cerchi d’acqua (2003) esprime la marginalità e la lateralità degli sfiorati (e domati di carezze) frammenti domestici e naturali, come scavo di enigmi e distillata purezza meditativa, in un magnete di archi e vibrazioni mistiche e ineffabili.

La contemplazione di Bacchini, perpetuata nelle successive raccolte Contemplazioni meccaniche e pneumatiche (2005) e nei Canti territoriali (2009), afferma il codice unico e prospettico dell’attrito di parola e cosa, come scintilla di eros e profanazione territoriale. Il suo ecosistema, affidato alla selezione naturale e alla sua intemperanza volubile, si spinge fino alla reductio ad unum della realtà, del tempo ciclico e dell’atomo, giunge alla transitorietà umana, alla catalogazione di nuove geometrie che scavano il muro della terra, per trovare il varco al grande punto interrogativo dell’essere, come scrive Giuliano Ladolfi: «La natura per Bacchini è la totalità dell’esistente, è la pienezza dell’essere; in lei si compiono i riti della vita, le metamorfosi atomiche che mutano la materia in nuove ontologie, tutte parti sistemiche e organiche di una stessa realtà: «E quando mi circondo il collo di ghirlande / e bacio per consolarli i fiori degli oleandri / bagnati di pioggia, amo me stesso». […] Una simile concezione, tuttavia, non va assimilata al panismo dannunziano, secondo il quale l’uomo si sente elemento naturale in una sorta di regressione; per il poeta romagnolo l’uomo rimane uomo, esito fondamentale di un processo evolutivo, in cui l’autocoscienza e la riflessione attuano una parte fondamentale del progetto, uomo che, continuando ad essere elemento di un organismo unitario, coglie la natura con sentimento fraterno all’interno di una sorta di “francescanesimo” biochimico».

La metafisica bacchiniana sosta sull’irrisolutezza di una profondità abissale e non conosciuta, in questa linea è l’abbandono materico della sua sensazione di origine: «Nelle notti / il sole precipita al di sotto, / sotto il polo, / e m’aggrappo al legno del mio letto / nel mondo che vola / e fa di se stesso una trottola / fra volatili coltri».   

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