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Adam Zagajewski: lo spaesamento degli oggetti

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La poesia di Adam Zagajewski (Leopoli, 1945) è uno spaesamento abitato dalla disappartenenza[1], una vita oltre la sconfitta che si fa battaglia per l’esistenza, tempo inesorabile, perdita di certezze e, di fronte alla sconfitta, il poeta «oscilla, tituba, attratto ora dall’abisso del nichilismo che lo trascina in basso verso l’annegamento, ora dalla speranza in una salvezza, un’àncora alla quale aggrapparsi, un fondamento nel quale ricostruire. Zagajewski è un poeta in viaggio alla ricerca di una verità sul mondo e sull’uomo che tuttavia è irraggiungibile[2]».

E poi la nostalgia che è il situs admirabilis di un condizione imperitura, dapprima dell’infanzia («La nostra strada vuota di domenica, / il rosso neogotico delle chiese / che non ispirava i mistici, / le bardane sussurranti in tedesco / e la confessione dell’alcolizzato / all’altare della parete bianca, / e le pietre, e la pioggia, e le pozzanghere / in cui sfavillava l’oro»), poi della patria come respiro verticale e dello straniamento e, infine, una dissolvenza umbratile di memoria lanuginosa che rappresenta l’eco di una condizione perduta, di una finitudine assopita e di un mistero irrisolvibile:

 

«Una soave pioggerella come se l’Atlantico / facesse l’esame di coscienza / Novembre ormai non finge più nulla / La pioggia ha spento i focolari e le faville / Santiago è la capitale segreta della Spagna / Di giorno e di notte la percorrono pattuglie / Per le strade vagano i pellegrini, stanchi / o pieni di brio, come comuni turisti / Sotto la cattedrale una donna / appoggiata allo zaino, piangeva / Il pellegrinaggio era finito / Dove sarebbe andata adesso lei? / La cattedrale sono le pietre / Le pietre non conoscono / movimento Sta arrivando la sera e l’inverno» (Santiago de Compostela).

 

L’epifania di Zagajewski, dunque, si raccoglie in una perforazione trascendente, in cui la densità dell’attimo diventa salvezza, migrazione straniera e io fuggiasco, come un turista sbadato che ama la luce o il chiaro lembo dell’alba.

La storia si lega alla Storia (il massacro di Srebrenica, la Shoah, Mandel’štam, Heisenberg, Ruth Buczyńska e poi la grande musica di Bach, Chopin, Schubert e Rachmaninov, l’arte di Delacroix, Manet, Vermeer, Zurbarán, Bruckner), la pioggia del tempo come un congedo di ombre che non permette di vedere la nitida luce del vero («A notte il mare è scuro, opaco / e parla con un rauco sussurrio. / Così veniamo a conoscenza del suo vergognoso segreto: luccica / di luce riflessa. / A notte è misero come noi tutti, / nero, rimasto orfano: / paziente attende il ritorno del sole»):

 

«Piove sulla cattedrale armena / e sulla chiesa ortodossa di San Giorgio / Sull’opera e su un fabbricato nero. / Nella nebbia le alture svaniscono. / E Ostap Ortwin, che / era un uomo nobile / (difendeva / Stanislaw Brziziwski). / Fucilato per strada / da uno della Gestapo. / Civilizzazione – ben sei sillabe. / Dolore – soltanto tre. / A Londra ho visto un autoritratto di Van Eyck / con la scritta “Als ich can” – cioè / “Così come riesco” – e non è un selfie. / Piove sulla Caffetteria Scozzese / e sull’Alto Castello / su Kajzerwald / e sulla sinagoga. / E questa città, che come Roma / poggiava su sette colli / con lo scettro e la mela / è diventata piatta e piccola. / Stridevano le ruote dei tram / nelle rotaie troppo strette. / E piangevamo tutti / passati e ospiti / vincitori e vinti». (Pioggia a Leopoli).

Dopo Dalla vita degli oggetti, pubblicato da Adelphi nel 2012, esce, per Mondadori, Guarire dal silenzio[3], a cura di Marco Bruno, un’antologia che parte dalle poesie del 2019 a ritroso, e manifesta una sorta di diacronia ultima e ultimativa del tempo: «C’è ancora oscurità, alla fermata / c’è chi s’incurva e raggomitola al freddo, / vedendolo pensi, che fortuna, / soffrono solo per sè».

Una poesia di cammino e in cammino che è pura asimmetria di un perpetuum mobile possibile. L’Oriente nell’azzurra lucentezza, la terra crepata di Kardamili, il nondove dell’orfanità, l’ascolto della poesia come un lungo balbettio di ombre che deducono il mondo, in strade senza fine, il ricordo dei meriggi custodiscono l’intima segretezza delle cose, conferiscono sospensione vitale alle cose, l’attimo luminoso che dice la realtà, la annuncia, sebbene in uno smarrimento baluginante, come una certezza effimera o un avvicinamento silente.

Vi sono luoghi e terre in questa poesia che diventano concetti e immagini profonde, Parlare del moderno per parlare d’altro, come afferma Marco Bruno, ed essa «sembra trovarsi continuamente su un piano inclinato: la prospettiva è sempre in fuga, con un centro ubiquo e parzialmente ingannevole; il centro si sposta perché si sposta tutto l’apparato che sembra contenere quel centro. Il discorso, quindi, sembra nascere da un’intersezione i cui limiti, però, sono indefiniti[4]»:

«La poesia è l’infanzia della civiltà, / secondo i filosofi dell’Illuminismo / e secondo il nostro professore di polacco, alto, magro / come un punto esclamativo che avesse perso la fede. / Non sapevo, allora cosa rispondere, / o stesso ero allora un po’ bambino, / ma mi sembra che volessi trovare / nella singola poesia sapienza (senza rinuncia) / e anche una certa serena follia. / Trovai, molto dopo, un attimo di gioia / e l’oscura felicità della malinconia» (Illuminismo)

 La sospensione della chiarità è un breve istante, una rarità di ore, una musica che acquista la propria dignità, a dispetto del tempo: «Quei brevi istanti / Che si verificano così raramente – Sarebbe questa la vita? / Quei pochi giorni / In cui torna la chiarità – / Sarebbe questa la vita? / Quei momenti in cui la musica / Riacquista la propria dignità – / Sarebbe questa la vita? / Quelle rare ore / In cui l’amore trionfa – / Sarebbe questa la vita?».

Esiste qualcosa che elude lo svanimento, pur porgendosi al commiato esprime magnificenza. Roteano su di noi morte e salvezza, l’altezza dell’essere, la piaga attraversata delle città e dei volti, i piccoli oggetti che durano come un fischio gioioso.

Roberto Galaverni scrive:

«[…] un interesse per la vita quotidiana che non è fine a sé stesso ma sempre traguardato da un punto di vista conoscitivo e filosofico; oppure la passione per la storia (ma anche la storia come incubo, come retaggio terribile), la memoria familiare e personale (l’infanzia, soprattutto) o, ancora, il tentativo di riconoscere alla persona umana una complessità e uno spessore che evitino di tirare da una parte soltanto – bene e male, significanza e insignificanza, amore e odio, saggezza e follia – il senso della nostra vita. […] Se una dote va riconosciuta a Zagajewski, è l’assenza di pregiudizi nella sua visione e interpretazione della realtà (è un poeta contemplativo e intellettuale insieme). E allora anche l’equilibrio necessario per metterle in forma di parole. Ama negli uomini l’altezza degli intendimenti, la magnanimità, la capacità di guardare al di là di sé. Eppure conosce l’umorismo, l’ironia, il senso di realtà o, più semplicemente, il buon senso».[5]

In Zagajewski vi è una sospensione e, allo stesso tempo, una ricerca del fulgore, un culmine di gioia e stupore meravigliato che vengono incisi dalle stanze del dolore, dalla grigia parsimonia di assenza e miracolo:

«Zagajewski si vuole spostare con l’oggetto del proprio desiderio. Vuole inventare questo oggetto. Allora inventa il paesaggio. Il piano in cui l’oggetto deve apparire, in cui tremiamo per l’avvento, è sempre un piano in fuga: è una prospettiva, non un nome. Il punto di convergenza delle linee sta oltre il quadro. Dobbiamo attraversare l’illusione, ritrovarci uguali nel nostro doppio».[6]

 La sottrazione è il piano di auscultamento, la lontananza una camera oscura per il vertice puro dell’io, dove il volo della parola, la linea, l’orizzonte del silenzio ha bisogno di rinominazione, oltre i recessi, e lì dove è il respiro canta ciò che tace.

Il suo immaginismo concettoso è sostanza di puro ascolto. Ciò che accade, ciò che impasta la nostra sostanza è uno sconfinamento di attimi mortali sulla levigata pelle degli oggetti.

Sfavilla il tempio obliquo della sua poesia, un nascondimento di Dio, un abbandono di silenzio, lungo i continenti delle vele e della tela che diventa l’ultimo sudario.

 

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ADAM ZAGAJEWSKI, Guarire dal silenzio, a cura di Marco Bruno, Mondadori, Milano 2020, pp. 298, euro 22.

Zagajewski A., Guarire dal silenzio, a cura di Marco Bruno, Mondadori, Milano 2020.

- Dalla vita degli oggetti, Adelphi, Milano 2012.

Castaldi N., Adam Zagajewski (https://rebstein.wordpress.com/2013/11/08/adam-zagajewski/), 8 novembre 2013.

Galaverni R., Dalla Polonia una smisurata meraviglia, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 13 settembre 2020.

Fraccacreta A., Adam Zagajewski, poesia dell’anima, in “Avvenire”, 23 ottobre 2019.

Macinanti F., Purchè non ci sorprenda la vittoria, in “L’Osservatore Romano”, 27 agosto 2020.

 

[1] Castaldi N., Adam Zagajewski (https://rebstein.wordpress.com/2013/11/08/adam-zagajewski/), 8 novembre 2013.

[2] Macinanti F., Purchè non ci sorprenda la vittoria, in “L’Osservatore Romano”, 27 agosto 2020.

[3] Zagajewski A., Guarire dal silenzio, a cura di Marco Bruno, Mondadori, Milano 2020.

[4] Bruno M., Quando lo spazio fu inventato in cielo, in Zagajewski A., cit., pp. 285-286.

[5] Galaverni R., Dalla Polonia una smisurata meraviglia, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 13 settembre 2020.

[6] Bruno M., cit., pp. 287.