La poesia di Bevilacqua nasce da uno stupore di confine. Esiziale, incommensurabile, vivente come un simbolo.
La scrittura poetica vibra di percezioni figurali attonite, nella stratificazione dell’io, con il suo dolore, attraverso le sue aperture sul reale.
Poesia dialogante, scoperta di un limite, luogo di infinite diramazioni della lirica, nella percezione del tempo così sorgivo, invalicabile coscienza.
Il poeta non è distante dallo scrittore, che nelle magie del metro esplora topoi ricorrenti e dominanti, come la figura della madre, centro focale della sua storia e“anima doppia” della sua espressione esistenziale, della vita stupita, in viaggio tra esplorazione di situazioni, fisicità di corpo, erotismo, malinconia delle lune e della geografia della città di Parma, incontro della bellezza con gli argini cosmogonici del Po.
Ciò che si dispiega nelle sue pagine è l’ossessione delle origini, come scrive Alberto Bertoni nella prefazione al libro che raccoglie le poesie dell’autore parmense, per i tipi Mondadori: <<E s’intendano le origini dei fenomeni, degli esseri viventi, delle percezioni, di Dio, della terra stessa che pure accoglie e riflette la storia, entro una sorta di ritualità non rivelata o confessionale, dunque precipuamente umana>>.
L’istante acquista la forza connettiva di un impulso vitale, di quadro energico e propulsivo danzante tra polvere e fango, principium creationis dell’uomo, motivo decisivo di Polvere sull’erba, prima raccolta del 1955 del poeta, in cui il sogno e il mito non mirano ad un’evasione discinta ma sono punti nevralgici di incontro con la realtà, con il mondo e con la condizione umana.
Il tempo e lo spazio percorrono le liriche in cui l’umano transita sulle sue linee, dove i sottofondi di una soave ed evocativa malinconia attraversano il calco biblico, ponte genealogico sul presente.
Come ebbe a scrivere Ionesco nel dibattito milanese con Borges dell’84: <<(le cose) esistono e insieme non esistono, appaiono e insieme scompaiono>>.
Sembrano richiamare l’insopprimibile bisogno di radici, la fecondità terrena e il suo abissale concepimento, il riconoscimento di una primigenia appartenenza al teatro di una città dove lo spazio si fa espressione di epopea e cronaca, <<il meraviglioso si fonde con il reale>>.
L’autobiografia è il momento della lacerazione e del trapasso in una nuova contingenza, in nuovi archetipi che non producono effetti uguali al suo manifestarsi.
Scrive Luigi Scorrano: <<Ogni testo non può stare come frammento o parte, ma nasce come tutto, sul tutto rampolla e fiorisce, nel tutto si riconosce pienamente; respira l’insieme e non l’isolamento, la “serialità” e non l’unicità della nota pura e sterile>>.
<<Perché non cedi, / perché ancora fai il verso/ all’usignolo, perché/ t’allieti al volo d’una mosca?>>. La nascita come discesa agli inferi, inabissamento di attimi, pioggia di istanti verso i termini primi dell’esistenza.
Come annotava Giovanni Testori, <<nel pantano del grembo, nel muto e tragico momento della nascita , Bevilacqua scende usando, non già gli strumenti ciechi dell’istinto, bensì quelli illuminanti della coscienza e della ragione>>, come nella raccolta Crudeltà, nello strazio del grido tra lucentezza e tenebre, in un gesto umano ricolmo e denso per “violentare il nulla”.
Nell’erranza del Po e nel “cielo depisisiano del Delta” egli trova la vera commistione gergale, un linguaggio misto e allo stesso tempo religioso, una realtà oscillante verso il destino, un’epica contadina, una silloge creaturale e rievocativa.
L’amore, come testimonia la raccolta Corpo desiderato, è una sfumatura di rito, oceano percettivo: <<…è/ il tuo simile appena distrarti/ dai nostri contorni/ per una repentina voglia d’osceno/ purissimo/ restando tu sfinge stupefatta/ come il mistero della rosa che divide due pietre>>.
Esso sembra trasmutarsi ma senza consolidamento, in un finale dissolvente come un tempo franto in una memoria persa (<<E adesso ti lascio e vorrei mettere la data, / ma non ricordo che giorno sia,/ non mi ricordo più il tempo- sapessi- non riesco/ più a vedermelo alle spalle il tempo / perdona questa inezia, / l’importante è che io ti abbia amata, /vero? O almeno conosciuta, /spero una volta: rispondimi al riguardo, rassicurami>>) o percorre le vertiginose strade della precarietà stagionale (<<Ancora giorno non è, / ma notte non più/ nell’ora del lampo / cinerino dell’albatro nella profondità viola, / dovresti fidarti>>).
Nel dialogo annunciante dell’Eterno, nel legame di sangue la comunicazione intessuta di piccole cose si fa cosmica, volo verso una dimensione di vertigine tra sogno e realtà, eros e divinità, luce e buio, permanenza e lontananza. Anche nella raccolta Duetto per voce sola- Versi dell’immedesimazione, il desiderio di comunione dilata le frontiere dell’io in una dilatazione di luoghi, di tempo e di confini, trasfigurati in un’«allarmata trasparenza d’ombre».
La radice intuitiva della sua poesia infine sta in ciò che scrisse Leonardo Sciascia: <<una nevrosi di ritorno in cui la memoria non trasceglie, non trasfigura, ma assume atrocemente tutto ciò che ritrova>>.