Il nuovo libro di Alessandro Fo (1955), Mancanze, da poco edito da Einaudi, restituisce una stupefatta opalescenza di ricerca, sembra sostare in una sobrietà di margini che si appropria del tempo e delle sue reliquie, come una vitale incompiutezza che non diventa occasione mancata ma sapidità e limite lucente, sorpresa accesa e coltre divina.
Il lavoro della parola, nel rapporto con l’esistenza, è una obbedienza alla realtà, alle sue svirgolate improvvise e ai suoi resti incancellabili, lascia la sua impronta orante, quasi divinatoria, diventando preghiera e domanda, avvertendo nei minimi e negli estremi accadimenti un segno, una ferita imperscrutabile che diviene fonte viva di grazia e bellezza.
Il titolo allude a questa accensione di ricerca e afferramento, di limite e di segno, appunto, che scoperchia la nostra individualità lucente.
Si fa i conti, in sostanza, con una insufficienza, che attraverso colte chiose e sintesi assolute, proclama l’intimità e il lampo, la lontananza prediletta e il lavoro ai bordi.
La preghiera stessa condensa la dinamica gestuale della poesia, laddove le pericopi dell’Ave Maria e del Padre Nostro, permettono di appuntare e trascrivere gli epifenomeni, la terra negletta, il desiderato manchevole, come il pianto di un figlio disperato, chiuso per caso, fuori al cancello, in mano ai singhiozzi mentre il padre lo chiama: «Corsi sopra, di lato: «Alessandro, – chiamai – scendo, ti apro. / Non preoccuparti più. Dammene il tempo!» «Dove sei? – singhiozzò – Non ti vedo…» «Qui, affacciato, / settimo piano del palazzo accanto…» Un attimo, la mano sopra gli occhi, / non mi trova, si scorda dell’aiuto / non sente più, stravolge in una smorfia / dolorosa la bocca, grida forte, / implora il padre, e ormai rinnega pure / la pura verità di avermi udito».
Il testo si appropria di più piani: Dio- Padre si manifesta alla sua creatura smaniosa ed angosciata, che, muovendosi attorno, sembra non riuscire a intuirne la voce e l’origine. Oppure, come scrive Franca Alaimo, «vedere in quell’inquilino che abita al settimo piano e in quel bimbo accorato che sta dietro il cancello chiuso lo stesso Fo (tant’è che il bimbo si chiama come lui, Alessandro), che, dunque, si autorappresenta, sdoppiandosi nell’adulto che ormai è dal punto di vista biologico-anagrafico e nel suo “io” più interiore ancora bambino in cerca di un Dio che non trova, anzi, che rinnega «pure / la pura verità» di averne udito la voce».
La ricerca di Fo, pertanto, diventa profondamente metafisica, ma concentrandosi in un fulgido grumo quotidiano che fa i conti con il visibile e l’invisibile, l’effimero e l’eterno, la traccia vivente e la morte, la perfezione e l’imperfezione: «[…] che ce ne andiamo a spasso / fra le innumeri forme qui fiorite / parallelamente / sistematicamente / gerarchicamente, e fra le nebbie / del dubbio casomai di questo passo / si dimostrasse niente» o ancora «Lascio un bacino e vado via. / Simone è qui… / Poi ci sono altri giovani, / Gaia, Claudia, Francesca… / – li indicava / qua e là sul fazzoletto di terreno: / ne brillavano i lumi / come fuochi in giardino. / E, appena fuori, si levava imponente / a guardia dle notturno / la Basilica dell’Osservanza; più giù, / nella distanza, la Piazza del Campo / sicuramente piena di gente ora, / anche se tardi, / gruppi lungo gli spicchi, / sguardi in cerca di incontri – […]».
Il senso di perdita come pena che tracima, la lotta con l’inverno come le scarpe di Emma, richiamano e rappresentano il gesto poetico che si incarica, come annota Davide Puccini «di vincere la lotta contro il tempo, ma qui come altrove, rappresentata da piccoli oggetti di uso quotidiano, per la differenza di statura tra il poeta moderno e il grande classico, dovrà accontentarsi di salvare l’attimo che fugge, realizzando in proprio il carpe diem, passato da un’aurea regola di vita ad una modesta concezione poetica».
È Dio che «invita lungo il lucido sentiero / l’angelo che consola», in un paesaggio di pioggia e tramontana, rappresentando l’indice dell’inserzione nel tempo che si scrive: «noi due al sicuro in un piccolo quadrato, / lei già dentro la morbida voluta / del sonno, rifugiata in me di schiena / mentre resto intento a una sua vena / (come fa a funzionare? / chi l’ha mossa e la fa così pulsare?)».
Il corpuscolo della realtà reca il suo invito e la sua incompletezza, il suo resto ospite e il suo organismo meraviglioso, come «l’odore della terra, / dell’erba nelle nari».
L’infinita ed eterna bellezza della Madonna si contrappone all’identità e alla precaria bellezza del fascino delle creature. Il rischio è una pura astrazione ma che tiene viva la domanda. Essa si afferma non nell’acerbo decadimento, ma nella precaria manifestazione: «Così contemplando qualcuna di loro / per una volta ennesima ti chiedi / se teologicamente, / e fino a quale soglia, le creature / si possono ammirare / con innocenza: senza / «colpevolezza», Paolo, si può amare / il creatore nelle Sue creature?».
La sua protesa scrittura, pertanto, «s’irradia come un ordine nei nervi» e risale dal foglio al suo pensiero (e al pensiero di lei su cui tiene fissi gli occhi), per riflettersi «lungo la penna, le dita, quella mano, / il braccio, il collo, / le tempie, il suo pensiero, / che poi, in ultima analisi, è un pensiero» e divenendo «lo spicchio di un rapporto, di un progetto, / nientedimeno che un’idea / di Dio».
Ma ecco che riprende il tramestio della vita, «il grigio cielo, portiere, scappamenti / con questi nuovi carichi: impossibile, / schiacciato a letto come su un selciato, / e per conforto stare a immaginarsi / raccolto altrove, quasi le coperte / configurando a lembo di un velo, / e una serenità condiscendente / lieta, se non divertita, / nel gran campo del cielo».
Le tre sezioni che compongono il testo (Libro d’oro, Il tono blu (variazioni Chopin), Figure d’Angelo) sembrano quasi riunirsi, tendere vicendevolmente e, infine, dispiegarsi in una sequenza infinitesima di voce.
Le nove impronte testuali si aprono alla preghiera mariana come una dispiegata novena, ricercano il sacro in una approssimazione devota (la piccola statua della Vergine nel reparto Ortopedia dell’ospedale Sant’Eugenio, opera di un devoto artigiano) e implorano riparo dagli assalti del male. Anche i diciassette testi dedicati a Chopin, «ornamento e valore del mondo», conoscono il blu delle sonorità flebili, le folate febbrili, come l’accostamento a Delacroix, le balze inaccessibili, la lentezza sonora, come il lavoro della Grazia che salva l’incompiutezza: «Come lenta si addensa nei licheni / e opaca si coagula la linfa / (secondo Montesquieu), ed evolve in stelo, / così la melodia nel la bemolle / minore del preludio 17. / Due volte, nelle due modulazioni / in tonalità con diesis, Chopin / tocca la vetta della gioia, al limite / in cui può rovesciarsi nelle lacrime. / Ma da un capo all’altro la tastiera / non conosca disomogeneità. / Limosoque palus obducat pascua iunco. / Sotto giunchi e palude, melodia / chiusa in fondo a una sua propria sfera, avvolta in amicizia da altre voci. / Un brumoso paesaggio immateriale, / sogni e vita in assidua pulsazione». Chopin diviene segno d’altura e ferita di gioia («…Come possono valzer così tristi/ giungere a donare tanta grazia?»), passo leggero e acume che racconta.
Le trame di Fo accompagnano il passo breve delle cose, il pieno desiderio che cerca di raccogliere i limiti della sua manchevolezza e dell’imperfezione soppressa. Ed ecco che la data, il ritratto, il congedo, come accade in Congedi (Gide in Italia), ispessiscono il silenzio in una gioia perfetta e in una imperdibile purità.
Il dialogo della vita e della morte si racchiude nell’ultima sezione, dove le figure d’angelo serrano le impronte delicate del divino nelle sembianze umane, sia nel limine della loro attingibilità («[…] proprio i tratti di lei, / che non è tolta, / dunque, al mondo fin dal Quattrocento, / ma è rimasta a fiorire qui in eterno»), sia nella loro afflizione franta («Pare che Dio (secondo San Giovanni) / poti quei tralci che già danno frutto, / per ottenere maggior frutto ancora»).
La leggerezza bruna («Sopra il piumino bianco / neri si spargevano i capelli / a incorniciare i tratti naturali / e al contempo irreali / tenerissimamente sorridenti / dietro le trasparenze degli occhiali»), il passaggio serale, l’angelo distratto, la Venere di Botticelli come la Torun di Ekner, l’incrocio di dettagli nell’istante bruciante («Sotto la pioggia, al buio, la figura / delicata e leggera, / stivaletti da sera in andatura, / di fuga verso casa»), la caproniana casualità («Donna bella, elegante, / perfetta, e un po’ sfiorita / – sì che tutta la strada / ne è stata intenerita»), la scabra arroganza dell’angelo-dubbio, le diffrazioni speculari e la minaccia, divengono scie che si impadroniscono di una realtà concreta e dell’attimo in cui essa si manifesta: «Né lei, probabilmente, / saprà mai quanto deve / alla sua veste il minimo bagliore / che ne riflette forse questa via / d’inchiostro e carta in metrica: / ispira diffidenza la poesia, / non convince la delicatezza, / poca gente è all’altezza dell’affetto, / quasi niente è il rispetto dell’amore».
È l’intima vocazione che abbraccia mutazioni e scompensi, gesti estemporanei e i visi amati, ricordati in segmenti quotidiani che brillano di luce propria (Dante e Petrarca, così il prete Ciriaco umile e mesto e l’angelo Leone). E infine, la micidiale bellezza degli Angeli su scala: la ragazza down «preziosa luminescenza bianca con foulard», traboccante di gesti, disposta accanto «a una bellezza giovanile / di occhi bruni acuti e luminosi, / vestita in scuro».
Il discorso unitario del libro, come afferma giustamente Franca Alaimo, si afferma e si riunisce attraverso il «dolore e la pietas, il mistero della vita e della morte, il dialogo difficile ma ineludibile fra umano e divino, la bellezza femminile (e direi la bellezza in genere) e la morte; l’atto della scrittura, Dio e il tempo» e non chiude il limite in una carenza estranea e vuota ma pare quasi scoperchiarla, mettendola a nudo in tutto il suo vivente vigore, come una epifania spiata e implorata.
Alessandro Fo, Mancanze, Einaudi, p. 120. Euro 11,00