2 aprile 1810. Nel fermento della folla parigina per le nozze di Napoleone e Maria Teresa d’Austria, il poeta Alessandro Manzoni (1785-1873) perde di vista la moglie Enrichetta Blondel (la “Beatrice manzoniana” secondo la riflessione di Giovanni Colombo). La ritrova poi nella raccolta quiete della chiesa di San Rocco e da lì <<le note di un canto di religione melodiose e soavi giunsero al suo orecchio. Egli entrò nel santo luogo e ne uscì tutto commosso e convertito>>(Giovanni Arrivabene).
Non sappiamo precisamente la ragione, ma al vertice del suo itinerario agostiniano c’è una conversione forse di tipo “paolino”, lontana dagli echi estetici di Chateaubriand. Una fede che entra prepotentemente nella sua vita e tesa ad affermare la presenza di Cristo al centro della storia e a documentare l’incidenza vera nella vita di chi lo riconosce. <<L’evidenza della religione cattolica riempie e domina il mio intelletto (…) questa fede io l’ho altre volte ripudiata, e contraddetta col pensiero, coi discorsi, colla condotta; e dappoichè per un eccesso di misericordia, mi fu restituita, troppo ci manca che essa animi i miei sentimenti e governi la mia vita, come soggioga il mio raziocinio>>. Fede, quindi, come vertice della ragione, messa spesso a dura prova dai lutti che gli sconvolgono la vita, ma sempre umanamente irriducibile. L’arte doveva render conto di questa memoria del Vero, della sua incidenza e del suo percorso nei singoli uomini, nelle nazioni e nelle generazioni: <<Il santo Vero mai non tradir>>. La poesia è il mezzo attraverso il quale il poeta scorge e integra la qualità intima della storia, attraverso cui crea e non imita, si libera dalle logiche aristoteliche e sviluppa appieno la forza morale, protesa alla vera essenza profonda delle cose, alla stessa verità dal punto di vista di Dio. Ed ecco che il teatro degli Inni Sacri rappresenta l’intersezione della storia, di una retta che dall’Infinito di Dio Creatore va verso l’infinito di Dio che verrà a giudicare la terra (Roberto Filippetti).
L’uomo diviene una sorta di masso che frana a valle dal <<vertice di lunga erta montana….>>, <<immobile là dove cadde>> fin quando <<una virtude amica in alto nol trarrà…>>. Il Natale manzoniano è un bisogno e un desiderio della Grazia, dono munifico di Dio, annuncio che spiega il reale, franchigia che rende liberi: <<Ecco ci è nato un Pargolo, ci fu largito un Figlio; le avverse forze tremano al mover del suo ciglio ….>>.
Ne Il Natale del 1833 così egli si rivolge al Bambino divino: “<<Sì che Tu sei terribile !….Vedi le nostre lagrime, intendi i nostri gridi, il voler nostro interroghi, e a tuo voler decidi: mentre a stornare il fulmine trepido il prego ascende,sordo il tuo fulmin scende dove Tu vuoi ferir…>>. Il Fanciul severo sembra non aver esaudito la preghiera di guarigione dalla tisi della sua Enrichetta, che giace prostrata ma serena. Ma il Manzoni supera questa crisi e nel Dialogo Dell’invenzione scrive <<Nei misteri della fede la ragione trova la spiegazione dei suoi propri misteri: come è del sole che non si lascia guardare ma fa vedere>>.
Anche le tragedie, dal Conte di Carmagnola all’Adelchi, radicano in un medioevo lontano e presente, allo stesso tempo, la fraternità umana nella paternità di Dio, nel sacrificio redentivo di Cristo, nell’appartenenza ad un’unica nazione.
Il Coro dell’atto terzo dell’Adelchi incastona la circolarità della sua lezione poetica <<dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti>> e lo stesso personaggio riflette sulla sua ora estrema, in cui si fondono giudizio storico e giudizio personale, in cui la sua piccolezza diventa distillato di grandezza per diventare santi attraverso la sventura e il sacrificio offerto a Dio: <<leva all’Eterno un candido/ pensier d’offerta e muori: fuor della vita è il termine/ del lungo tuo martir>>.
Ne I Promessi Sposi si assiste ad un’epopea cristiana, a un tempio di parole aperte sulla <<gran volta del firmamento>>, in cui egli non perde mai di vista ciò per cui l’uomo è fatto. Gli umili trovano nella Chiesa la loro profonda identità, il loro compito preciso, la loro appartenenza. Ogni singolo uomo ha dignità anche di fronte ai soprusi bestiali del potere.
Il romanzo persegue vie metaforiche, non pervase da ingenuo ottimismo, ma che si collocano in un tempo non evasivo, ma spesso stridente e antinomico. L’Innominato si converte in quella sua domanda ultima di rivelazione del divino, la monaca di Monza si ravvede espiando le colpe commesse e al centro della storia Renzo e Lucia, “senza patria”, che dopo impervie peregrinazioni giungono lontani dalla loro terra. Il lieto fine però non è idillico, è realistico, metafisico. La felicità, per lo scrittore, non risiede in una realtà edenica, perduta nei meandri della storia, ma in una speranza certa, faticosamente conquistata. La religiosità manzoniana è stata da sempre un territorio aspramente dibattuto dalla critica, che ha spesso e volentieri tracciato un sentiero di formazione giansenista, radicato in Pascal e Bousset, ma che ha visto nel suo itinerario poetico una specifica peculiarità.