António Ramos Rosa (1924-2013) scoperchia l’orlo delle cose, pronuncia l’indagine sulla parola e sul linguaggio, come ossessione lucida, smarrimento, lontananza immune.
Ha rappresentato, con la sua corposa produzione, un nuovo transito, ha abitato un passaggio vertiginoso e fertile di cambiamento, dopo la numinosa rêverie di Fernando Pessoa: «è seduto alla sua sedia il poeta. È un poeta povero», scrive Vergílio Ferreira, «e questo è il suo posto. Perché tutta l’avventura, lo spazio aperto della vita, si concentra nella punta della matita, coincidente con la sua ombra, nel deserto del foglio su cui scrive».
Nato a Faro in Algarve il 17 ottobre del 1924, dove ha vissuto fino agli anni ’50, quando si è spostato a Lisbona, senza aver terminato gli studi e dopo aver lavorato, per qualche tempo, come impiegato di concetto (la Poesia di un funzionario stanco sarà la traccia di questo periodo di vita) e insegnante di portoghese, francese e inglese, ha iniziato, precocemente, lo scavo nella parola, traducendo Gide, Éluard, la Yourcenar, Foucalt e non ultimi Fortini e Abbagnano, percorrendo una notevole e importante attività di critica e saggistica.
Lo studio, la dedizione all’immagine simbolica e alla nudità della parola che non ama deviare, non si concludono solo in una incessante capacità espressiva, bensì si impongono come traiettoria di una cosciente attività artistica, militante e di opposizione, come nel caso anti-salazarista, che impregna una notevole quantità della sua lirica.
La profonda attenzione alla testualità e a tutte le possibili capacità linguistiche, così come alle proprietà fonico-simboliche e alla visio materica, consente di instaurarsi nel solco di una riflessione poetica che ama concepirsi attiguamente al segno vitale, alla traccia nascosta dell’esistere e alla astringenza di parole e cose, come uno iato inscindibile che cerca di superare la dicotomia tra facile poesia “sociale” e poesia “pura”, in un movimento abbondante e incisivo.
È nell’abbandono a questa attiguità che la poesia può esprimersi e rendersi possibile, perché scrivere le cose è chiamarle di nuovo, per decretare la bellezza di un istante denso e infinito, per sostare sulla pronuncia, come incontro con il supremo gesto della realtà: «L’immagine poetica crea il suo spazio, annullando la distanza della significazione rappresentativa, imponendo una presenza originale. Parola e oggetto si identificano. In questo spazio tutti gli incontri sono possibili e tutto il possibile diventa reale» o ancora «La parola è l’essenza della cosa […], e questa distanza, questo vuoto della parola aprono la comunicazione, stabiliscono la relazione con il tutto […]» che promuove «la continua traslazione dei significati che non si fissano mai, si ripercuotono fra di essi mutuamente si annullano per ricostituirsi subito dopo nel movimento della poesia».
Pertanto, «La parola poetica […] è la parola che fonda la comunicazione della nostra esistenza, la parola che ci pone di fronte all’impossibile (l’utopia) e attraverso cui si può forse fare un passo verso l’ignoto». Questo strenuo attaccamento al germoglio lessicale, scritto sulle dita, nasce da una combinazione precisa, come scrive Fernando Pinto do Amaral, e da una incessante gravitazione di foglio e universo, pagina scritta e piega dell’esistente, testo e universo: «Cammino un cammino di parole / (perché mi hanno dato il sole) / e attraverso questo cammino al sole mi unisco / e attraverso il sole a me mi unisco / E poiché la notte non ha limiti / Amplio il giorno e mi faccio giorno / E mi faccio sole perché il sole esiste / Ma la notte esiste e la parola lo sa».
La radente e brada respirazione delle sue parole, che giacciono sulla soglia «a fior di carta, a fior di terra», si nutrono della fluidità dell’orlo, della forza cosmica della percezione e infine della precisione segreta del mondo, come atto d’amore: «La carta, il tavolo, il sole, la penna … / Al lato, la finestra. E niente ho / e niente sono io che scrivo. E niente spero / di quanto spero. / Mentre scrivo non sono e neppure voglio / non ascolto né parole né silenzio. / Allineo parole ma ancora non cammino. […] Scrivo per non vivere senza spazio, / affinchè il corpo non muoia nell’ombra fredda. / Sono l’illimitata povertà di una pagina. / Sono un campo abbandonato. Il margine senza respirazione».
Vincenzo Russo, al quale si deve una interessante e bellissima antologia dell’opera rosiana, afferma nella sua compiuta introduzione: «Un doppio movimento di estensione e di concentrazione attraversa l’arte poetica di Ramos Rosa che, se da un lato, aspira alla «povertà di certe parole» (come la poesia anonima), a un grado zero di «parole dure, radenti, spoglie», fino al silenzio del loro significante e del loro significato, alle parole assolute, fuori dal discorso e dalla storia, dall’altro, sfidando la tautologia stessa, ingaggia una vera e propria lotta dell’eccesso, della ripetizione, dello sciupìo per dominare nei non-confini della pagina, tutto quanto è rimasto, tutto ciò che è avanzato, perché anche quando – come nelle dittature – il poeta è messo a tacere il canto divenuto irriconoscibile, «continuano a esistere anche / altre cose che danno materia alle poesie».
La povertà della parola, petalo di «un lavoratore povero / che scrive parole povere quasi nulle», è il genio sospeso di una aridità feconda, che si allinea all’esistenza, perché solo così a lei si fa omaggio, la si serve, con la ricchezza visionaria, onirica e il tenero tradimento del proprio limite: «Nessun rumore nel bianco. / Su questo tavolo dove cavo e scavo / attorniato da ombre / sul bianco / abisso / di questa pagina / alla ricerca di una parola […] alla ricerca di un volto / o un foglio / o di un corpo intatto / la figura di un grido / o a volte semplicemente / una pietra / cerco nel bianco il nome del grido / il grido del nome / cerco con furia assetata / la parola che sia / l’acqua del corpo il corpo / intatto nel silenzio del suo grido».
Indagare il fondo dell’essere per rilustrare ciò che si nomina, si abbaglia nel suo senso sparso, con il quale fare un corpo a corpo, come nella lotta dei giorni, e poi promanare il necessario attraverso il molteplice, il groviglio dei segni, la fradicia bellezza del nostro segreto, come commenta ancora Vincenzo Russo, per cui «la lirica di António Ramos Rosa allegorizza la scrittura del presente contro tutto ciò che a esso vorrebbe strapparlo».
L’istante che ama la pienezza, la fiorente e irriducibile promessa di felicità irrimandabile, il corpo di donna per amare il mondo, l’approdo dello sguardo per ogni rotta infinita e l’immutabile respiro dell’essere: «Non posso rimandare l’amore al prossimo secolo / non posso / anche se il grido soffoca in gola / anche se l’odio scoppia e crepita e arde / sotto montagne grigie / e montagne grigie / Non posso rimandare questo abbraccio / che è un arma a doppio taglio / amore e odio / Non posso rimandare / anche se la notte pesa secoli sulle spalle / e l’aurora indecisa indugia / non posso rimandare al prossimo secolo la mia vita / né il mio amore, / né il mio grido di liberazione / Non posso rimandare il cuore».
L’anima di Ramos Rosa è irradiata di fuoco e acqua, protesa alla ricerca di un piccolo cuore, un frutto sereno, un arabesco di leggerezza magica dove «si spegne un pianeta, si accende un albero» e in cui la poesia della sostanza notturna, che insegue il coagulo del tempo nel luogo, dove si vive l’ombra, sarà «materia fedele alla materia».
Negli interstizi sfuggenti si colloca il respiro interrotto del «bianco balbettio di una lingua spessa, il legno, le api, / un organismo verde aperto sul mare, / i tasti dell’estate, le industrie dell’acqua», così come nell’esodo del silenzio e nel segreto miracolo della realtà avvengono le cose, perdute e ritrovate, si proclama la stanchezza del grido e il sorriso pudico, «Il tempo fecondo / dei sogni confezionati ripetuti come un alito di febbre», e perfino il tempo buio «della fame concreta di un sogno proibito» o assente «degli occhi di un desiderio di città chiare».
Il suo grido chiaro «segue la narrativa delle transizioni», la ferita delle vertigini, con parole «cariche di notte e di spalle sorde», si incide nella obliqua esattezza di ciò che ritorna alle origini, per «formare una scrittura nativa / di corpi chiari».
In questa chiarità solenne e insolita, la sua anima conosce pareti e il gemito di lacrime oscure, un sudore di silenzio, un fuoco scritto.
Solo nella ferita e nel limite nudo e umile, si rintraccia la possibilità di un dispendio umano conciso e vibrante. In questa prospettiva povera di ascolto, il cuore assorbe il momento intatto di una grande pagina aperta, da cui «esce l’acqua di un terreno rosso e dolce / escono le labbra arancia bacio a bacio / il grande sisma del silenzio / in cui superbo cadi vinto fiore» e lo spoglio è timore, amorosa confusione, perché «quando stai per nascere la tua bocca tocco / e il bacio è già perderti».