Scrive il poeta John Keats: <<Vi è una grande differenza tra di noi. Lui descrive ciò che vede, io ciò che immagino. Il mio compito è quello più duro>>. Attraverso questa esatta affermazione, Keats delinea un quadro di esperienza e, allo stesso tempo, figurativo dell’opera del grande poeta inglese romantico George Byron (1788-1824). La poesia di Byron è imbevuta del flusso della “lava della fantasia” definita nella cornice spazio-temporale di un eterno presente, permeato di fratture e opposizioni compositive. L’insorgere delle passioni determina un moto di ribellione e di oltrepassamento di ogni coercizione, ed è espressione quasi di uno spazio e di un territorio teatralizzati, per così dire, della coscienza dell’autore. Pertanto, la poesia è una sferzata contro l’etica benpensante e moraleggiante di un io già immerso in una società indistinta, e un’accesa sedizione contro i simulacri divini nel mondo terreno. Gli eroi byroniani palesano il loro afflato naturale ergendosi al di là della loro condizione, come una sorta di vera redenzione. In Manfred la sottile linea della colpa in bilico tra eros e thanatos supera il confine del gotico e si fa tragica corrispondenza di sensi, di rapporto che tutto divora, o elegiaca nostalgia dell’innocenza come, ad esempio in Don Juan. Il titanismo byroniano si nutre della forza morale che le è propria, soprattutto attraverso la potenza della parola, e intende superare prometeicamente le leggi umane e divine, pur non potendo e non riuscendo a fuggire dal proprio esilio. Il suo senso mitologico è metaletterario e selvaggio al contempo, guerreggia contro il Male storico (Don Giovanni) ed è baluardo contro la rovina della società civile: <<E le onde sotto di me scalpitano come un destriero/ che conosce il suo cavaliere>> e poco più avanti <<perché sono come un’alga/ dagli scogli divelta nella schiuma dell’Oceano a salpare/ ovunque i flutti la sbalestrino, o il respiro della tempesta prevalga>>. Non lotta con il divino il poeta, egli si confronta con esso in solitudine e finisce per assumere forme di angelico decadimento e di dissidio interiore. Scrive Tomaso Kemeny: <<Per quanto i suoi versi celebrino la bellezza della natura e dell’universo, nella sua opera non si assiste alla suprema conciliazione romantica dell’ “io” lirico con l’ “Io sono” divino immanente nel cosmo>>. Attraverso questo movimento scomposto c’è un forte allontanamento dalla poesia, che sembra scaturire dall’oceanico grembo della natura, di Coleridge e Wordsworth che avevano celebrato l’eterno rapporto dell’affermazione naturale con l’io individuale, tutt’altro, è una “nostalgia del sublime” che dipinge la sua poesia, con l’ausilio (si pensi allo stesso concetto di caritas romana presente in Byron) della femminilità di alcune figure, che avvertono preponderanti in sé la loro forza creatrice e il sensibile richiamo alla natura. La perdita dell’innocenza edenica, il sentimento delle cose sono l’implacabile conseguenza delle condizioni storiche e sociali, in cui il linguaggio poetico è denaturato ed è apparenza di un’antichità ormai irrimediabilmente perduta. Anche nel suo grand tour, testimonianza dell’affermazione di una poesia esoticheggiante e allo stesso tempo esiliata, si afferma la visione della solitudine morale dei suoi personaggi sulla scena. Don Juan, antica espressione di una grecità sensuale e polimorfa, è ancora una volta l’esiliato per eccellenza, perduto nella sua contingenza e nella sconfitta dei valori della società in cui però riesce a vivere nel disincanto, sospeso tra desiderio e caducità, colpa e libertà in lotta con l’abisso del Nulla: <<Vi è vera vita nella nostra disperazione/ vitalità del veleno- una radice viva/ che nutre rami implacabili>>. Byron rappresenta un’immagine viva e densa di angelo caduto, di “individuo disdegnoso”, come scrisse Giuseppe Tomasi di Lampedusa, immerso nei profumi settecenteschi di un melodramnma in fieri: <<Sfrutterò la miniera della mia giovinezza fino all’ultima vena di metallo, e poi..amen. Ho vissuto, e ne sono lieto>>.