Qual è la materia di Charles Bukowski (1920-1994)? Di cosa è fatta l’aria chiaroscurale dei suoi battiti felini, dei suoi giochi incalliti, delle sue ombre nella notte? Quale coloritura accesa, estrema, maledetta fende lo spazio e le scie del suo turbine?.
Charles Bukowski: il poeta dei mozziconi di sigaretta, delle donnacce ai margini, delle poesie picchiate sulla macchina come gocce di pioggia, dei lavori occasionali e sregolati, lui che sposa una donna che non conosce e che aveva pubblicato i suoi testi su una rivista, che percuote l’immagine della poesia, in una Los Angeles di luce e crepe. Egli è questo e molto di più di questo.
Lo è la sostanza dei suoi versi, dei suoi romanzi che richiamano l’abisso, senza aver paura di attraversarlo, con l’alcool che non frena il suo fiume. Il fulcro del suo fiume.
Il suo gesto poetico è una febbre dentro una difesa. Con il cinismo delle notti in panne, sbagliate, offese e radenti.
Il suo alter ego Henry Chinaski, maledetto, indifferente, sregolato, che si ubriaca con poche stelle e ciglia, conosce il margine del whisky e dell’insofferenza, barbone, sex-addicted, è un fendente contro il suo tempo.
Nel suo romanzo Panino al prosciutto (1982) Chinaski ripercorre il viaggio nella sua infanzia periferica: il difficile rapporto con i genitori, l’isolamento, l’emarginazione e le poche amicizie, l’invasiva scoperta degli ossimori dell’universo delle donne.
Negli ossimori Bukowski rinviene la sua sconfitta e la sua irriverenza di linguaggio, innanzitutto, che sostano nell’ordinaria follia di un respiro di una stanza di pensione, grande come il mondo, sfrontata, anarchica.
Ma in questa luce al neon, sghemba e offuscata, egli conosce la sua materia, la febbre della materia che sussulta, offre il fianco al ridestarsi di un’ansia di vita, di un colpo da incidere negli occhi: «mi destai alla siccità e le felci erano morte,/ le piante in vaso gialle come grano;/ la mia donna era sparita e i cadaveri dissanguati delle bottiglie vuote/ mi cingevano con la loro inutilità;/ c’era ancora un bel sole, però,/ e il biglietto della padrona ardeva d’un giallo caldo/ e senza pretese; ora quello che ci voleva/ era un buon attore, all’antica,/ un burlone capace di scherzare/ sull’assurdità del dolore; il dolore è assurdo/ perché esiste, solo per questo»
Scrive Vincenzo Mantovani: “La faccia di Bukowski è rugosa, irta di peli più bianchi che grigi, corrosa dalle pustole di una remota malattia infantile, devastata da un incalcolabile numero di sbornie. È la faccia di un barbone della Bowery, la faccia che dovrebbe avere chi ha fatto la vita che ha fatto lui. Nato in Germania nel 1920, portato dai genitori negli Stati Uniti a due anni, cresciuto a Los Angeles, Bukowski pubblicò il suo primo racconto a ventiquattro anni e solo a trentacinque scrisse la sua prima poesia. L’intervallo tra l’uno e l’altra è una lunga parentesi oscura”.
Una vita che gioca sul filo, che percorre l’estremità della sua smagliatura, tra la miseria, la fame, il carcere, il manicomio, il divorzio, un tentato suicidio e una coltre di donne.
La sua vita è clandestina come la sua pagina, scorge feritoie e spinge l’immaginazione al confine tra sperdimento e distruzione.
A un giornalista che gli chiedeva in che modo lavorasse, egli rispose: «Bevendo. Io sono un alcolizzato, perché l’alcool migliora la vita. Quando si è brilli, le cose ci feriscono meno. Si parla, si superano i momenti difficili, sembra di essere in un film. (…) La sera verso le otto, stappo la mia prima bottiglia di vino. Musica classica, Beethoven, Brahms. Di solito verso le undici non sono più in grado di continuare,ma per quell’ora ho scritto un bel numero di pagine».
Si taglia l’immagine della vita, diluendone i confini duri e gli spostamenti stanchi: «esco, stacco un’arancia e le tolgo la buccia lucente;/ le cose sono ancora vive: l’erba cresce ch’è un piacere,/ il sole fa piovere i suoi raggi tra i giri/ di un satellite russo/ un cane, sciocco, latra chissà dove, i vicini spiano dietro le tendine.» o ancora:« mi sembra che ci siano molte cose da dimenticare/ e molte da non fare/ e nei drugstore, nei market, nei bar,/ la gente è stanca, non ha voglia/ di muoversi, e la sera io sto là in piedi/ e guardo attraverso questa casa e la casa non ha voglia di essere costruita».
Bukowski narra la sgradevole corporeità dell’esistenza quotidiana, che, nella sua messa a fuoco, vive, come una voce rauca, un solco di limite.
Il bar, l’ospedale, il bordello, il mattatoio, la strada, incrociano la sua figura incandescente, la sua arte estrema e vitale, che graffia la sostanza delle cose, affermano estraneità poetica e voragine incolmabile. È il suo mondo spezzato di promesse in affitto, di uomini traditi, di vecchi di sporcaccioni ubriachi, di pazzi suicidi.
Nella spezzatura dello stordimento si afferma la sua genesi, la morte che impasta lo stupore e la contemplazione, che intride la decadenza di tutto, con il solco della routine, del margine dell’alienazione, cui opporre la speditezza dell’estremo, del magma furente del sesso, dell’ozio e del vino, simile a labbra accese e corpi-paesaggio che riscaldano letti.
Ma esiste il Bukowski delle lettere e delle corrispondenze, colui che tenterebbe il suicidio se non venisse pubblicato, che dice che senza la sua donna non potrebbe vivere, o mentre legge una poesia e le lacrime rigano il volto. Ecco il suo grido, ecco la sua fertilità.
Nella ribellione, nelle bussole e nelle mappe della sua esistenza, c’è posto per un gorgoglio di lacrime, un fiotto umano che non ama le difese e che nell’altro non trova oggetti, ma vertigine, fiamma, specchio: «c’è un uccello azzurro nel mio cuore che/ vuole uscire fuori/ ma io sono troppo un dritto, lo lascio uscire solo/ certe volte di notte/ quando tutti dormono/ gli dico, lo so che ci sei,/ quindi non essere/ triste/ poi lo rimando dentro,/ ma lui continua ancora un po’ a cantare/ anche laggiù, non l’ho lasciato morire/ del tutto/ e dormiamo insieme/ Così/ col nostro/ patto segreto/ ed è bello quanto basta per/ far piangere/ un uomo, ma io non/ piango, e tu?».