«Vorrei semplicemente descrivere / quello che vedo …».
Questo verso essenziale e netto di Claudio Damiani è uno stigma insito nella sua poetica e che trova nella sua nuova silloge, Il fico sulla fortezza, edito da Fazi, una curvatura preziosa, un largo lineamento.
Nato a San Giovanni Rotondo nel 1957, ma dall’infanzia trasferitosi a Roma, dopo la bellissima raccolta Poesie del 2010, pubblica qualche mese fa un testo intenso, diretto, semplice: «Verso la fine del’900, negli anni ’70-‘80, c’è da parte di molti un ritorno alla natura, un desiderio di dire non tanto le relazioni segrete tra le cose, ma le cose stesse. Come Petrarca ci dice Laura ad esempio. Tornare dunque a una lingua “semplice” e “logica”, senza analogie e sinestesie, concentrata sulla cosa, sulla presenza, la cosa che con la sua semplice presenza genera più stupore e meraviglia della sinestesia più bizzarra».
Emanuele Trevi, nella nota che accompagna il testo scrive: “dall’albero il poeta riceve l’insegnamento supremo: è possibile amare la vita senza avvelenarla con la paura della morte. È possibile, dunque, la felicità, quella pura e gratuita vibrazione dell’essere qui, dell’esserci ora, minuscolo filo saldamente intrecciato all’arazzo del cosmo?”.
Il sussulto che sgorga semplice, l’invito a fermarsi per la quiete delle cose, sono protagoniste sempiterne di un ragionevole bisogno, laddove la bellezza erompe con il suo sfarzoso movimento di ferita e naufragio gioioso.
Non esistono cose senza occhi, perché come dice il poeta stesso in un’intervista: «Ogni cosa, in quanto forma (e se non fosse forma non giungerebbe all’essere), è bella e viva.».
La vivezza del vivente, è l’ alone poggiato sul «cielo bianco», su «una gioia quieta», verso «una deriva felice», che conosce l’intelligenza della realtà, i rapidi passaggi e paesaggi di una materia da nominare, di una narrazione viva da indicare.
È il dialogo con la natura, con la grazia del suo gesto morbido e fecondo, l’intima sospensione dell’espressione, che quando si abbandona respira la profondità dell’esistere, la limpidità di un impasto di melodia, come linea di anelito.
La geografia poetica di Damiani conosce il viaggio errante dell’istante e le modulazioni di tempo e vita, nella natura misteriosa.
Il fico sulla fortezza è alla Rocca dei Savelli a Rignano Flaminio, impronta di casa e destino oltre-tempo, nonostante la fine incombente.
Ogni cosa, pertanto, afferma il suo dialogo, il suo ascolto, la sua obbedienza e, infine, la sua vitalità accesa: dagli alberi, alle pecore, agli uccelli.
Tutto si conforma al potere infinito dell’origine, della primordiale grazia e bellezza che tutta la realtà reca in sé, per possedere una via salda ed essenziale: «Vorrei tenerti stretta a me, e non lasciarti mai».
Poi c’è la luna. Tremante relazione dell’io con il tu, che attrae e che determina l’incendio delle lontananze, la sperdutezza del canto.
Nell’immediatezza c’è lo stupore di una conquista: la semplicità.
Che guizza, balena accenni, si inserisce nel dramma del tempo e lo abita, senza censure, senza sviste, senza attimi perduti.
Perché la fuggevolezza delle cose abita la tensione d’amore, rurale e bellissima, di uno sguardo umano, che si rende poetico quando si abbandona, quando provoca con il suo linguaggio trasparente la discesa di senso, il nitore e la gratuità del vero.
Emanuele Trevi annota ancora: “Come un saggio taoista, Damiani non si stanca mai di dipingere a rapidi colpi di pennello paesaggi nei quali gli uomini e le bestie, le piante e le pietre, le nuvole e le acque sono gli elementi solidali dello stesso prodigio, ovvero una sola materia senza più nome, disponibile a tutti gli esperimenti di un’alchimia interiore capace di trasformare in oro il fardello dell’impermanenza e l’angoscia del tempo che fugge”.
Il movimento poetico appartiene alla vita, si fa vita quando si apre al suo abbandono, quando converge verso la solida materia vivente, che è prodigio, attesa, compimento.
In questo la poesia di Claudio Damiani rappresenta la vertigine trasparente nomina le cose, pur non sapendole, che indica il gesto della realtà, pur non decretandone la misura:«Bisogna avere un cuore di ferro/ come Ulisse, per vivere./ Penelope è davanti a noi e piange/ e noi dobbiamo tacere, non possiamo dire niente,/ non possiamo commuoverci./ è tutto così chiaro/ eppure non possiamo rivelarci».
La morte o meglio ancora la fine, vive nelle sue pagine, ma non riduce tutto a nulla, anzi innerva la riflessione sull’amore verso il tempo e i giorni, per scoprire l’evidenza di ciò che appare, la sua essenza e sostanza, come recita la bellissima poesia che dà il titolo al testo: «Il fico sulla fortezza/ ha vita molto precaria/ perché quando faranno i restauri/ sarà certamente tagliato. / però sta tranquillo sotto la luce del sole/ distendendo il suo ampio mantello/diseguale, incurante dell’estetica,/ se ne frega di stare così in alto/ non soffre di vertigini/ si lascia accarezzare/ dalla luce e dalle brezze tiepide/ sente la nebbia, sente gli uccelli/ che parlottano tra i suoi rami.».
In questa permanenza c’è tutta la potenza dolce di uno sguardo umano, che ama sostare e verdeggiare sulla grazia indomita di un sì al vivere.
CLAUDIO DAMIANI,
Il fico sulla fortezza,
Fazi, 2012, pp.129