<<Rebora è colui che più di tutti ha trasfuso in poesia esistenzialità e moralità, disperazione e speranza, rifiuto dell’esistente e ansia di assoluto, fino a costruire il più autentico monumento di poetica espressionistica della nostra letteratura primonovecentesca» (E.Gioanola). Quando ci si imbatte nella poesia di Clemente Rebora (1885–1957), uno dei poeti del nostro Novecento più intensi, ci si trova di fronte a un’ansia, ad una tensione ultima sulla positività del reale e ad un amore, per così dire collaborativo con la realtà. E tutto ciò si esprime dapprima in una lacerazione, in urto, in una genesi di dolore, in una partecipazione alla costruzione dell’universo poi in un canto accorato e in un bisogno insopprimibile. Ma la lotta con il suo desiderio profondo è incandescente e sembra precludere, nell’incidenza dell’attimo, alla gioia permanente, alla vera esigenza di significato. Questa è l’anima dei Frammenti lirici, pubblicati nel 1913, a Firenze, la più vasta delle sue raccolte in versi. Il poeta è dinanzi a una scelta, una biforcazione drammatica della sua esistenza, dove la natura prende coscienza di sé, ed è quindi nell’uomo, che si innerva la caducità, la contingenza delle cose tra il tentativo di aggrapparsi al possesso precario, agli idoli, e l’esigenza di compimento che porta in grembo il suo “grido”, con “una segreta domanda”: <<Qualunque cosa tu dica o faccia /c’è un grido dentro: / Non è per questo, non è per questo! E così tutto rimanda/ a una segreta domanda: /L’atto è un pretesto>>(Sacchi a terra per gli occhi). Ma al cuore, che reca in sé il sigillo dell’ infinito, è necessaria la Salvezza, nella dinamica del non misurabile, nell’orizzonte appoggiato sul Mistero: <<ammiccando l’enigma del finito sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuori scapigliato come uno scugnizzo, dentro gemevo, senza Cristo>>. Questa drammatica dinamica agonistica trova la sua espressività in un componimento “Il pioppo”, scritta dal suo letto di dolore, dove visse la sua malattia e dove davanti alla finestra vide “il pioppo severo”: <<Vibra nel vento con tutte le sue foglie/ il pioppo severo; spasima l’aria in tutte le sue doglie/ nell’ansia del pensiero: dal tronco in rami per fronde si esprime/ tutte al ciel tese con raccolte cime: fermo rimane il tronco del mistero, e il tronco s’inabissa ov’è più vero>>. Tutta la realtà proclama un oltre, lo afferma, chiedendo all’uomo di tendere verso questa nuova incommensurabile scena, o meglio di ad-tenderla nella sua domanda elementare, egli fatto per il cielo ma concatenato alla terra, come tanti suoi simili legati alla sua condizione, come scrive Roberto Filippetti: <<Questa “domanda di vita” attraversa da un capo all’altro l’opera prima: frammenti gremiti di una domanda di totalità>>. Nei Canti anonimi, secondo libro del poeta,<<si accentua la sua tendenza a scomparire come io per farsi voce, anonima appunto, di una situazione comune, quella della pena nella città moderna sempre più priva di umanità, e dell’ansia amorosa per qualcosa di diverso e più alto>> (E.Gioanola). Ma l’acme poetico di Rebora si respira nella vibrante Dall’immagine tesa, definita come una delle più alte espressioni poetiche e allo stesso tempo religiose del nostro tempo, di <<un fatto che venga a dare un senso all’attesa e alla tensione>>, come commenta Luperini. Nell’ “ombra accesa” egli spia i suoni impercettibili di quel sinestetico “polline di suono” fra quattro mura dilatate di spasimo infinito, pur non aspettando immobile nessuno, ne avverte l’orlo della presenza. L’immagine tesa di Rebora è <<la mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes animae>>. Ma quest’Ospite arriverà improvvisamente e imprevisto (immagine già presente in Peguy), sbocciando, portando il dono della vittoria sulla morte. Sarà un bisbiglio come la certezza di una nuova positività (il poeta si convertirà nove anni dopo) e come egli stesso scrisse a Montale: <<La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto>>. Il dolore è parte decisiva della sua vita e espressione non solo della sua intera opera ma soprattutto di Curriculum vitae, in cui ripercorre il suo itinerario esistenziale tra gli idoli raminghi e vaganti della giovinezza e la caligine del buio dell’anima, il fievole belato della Grazia, alla quale piega il suo cammino paraliturgico. Accade l’Avvenimento, che consente di sfiorare e poi di toccare la dimora tenera del suo compimento di uomo, che s’inciela, che attraverso la sofferenza partecipa alla redenzione di Cristo (centro del cosmo e della storia), che nel “miele” della poesia si rende strumento della Verità, rendendolo cosciente di sé: cioè libero. <<Nella sommersa pace il guardar mio/ tenue senso di un crepolìo/ D’aria che a galla su per l’acqua levi; / Cammino in nimbo, e rarefatto inclino/ Sinuoso al fosforico sentiero: / Ciò che men dissi, tutto m’è vicino;/ E per l’amante cuor nulla è mistero>>.