Nato in Lituania nel 1911, come egli stesso descriverà («è bello nascere in un piccolo paese, dove la natura è umana, a misura d’uomo, dove nel corso dei secoli convissero tra loro diverse lingue e diverse religioni. Mi riferisco alla Lituania, terra di miti e di poesia (…). È una benedizione se qualcuno ha ricevuto dalla sorte una città di studi liceali e universitari com’era Vilna, città stana, dall’architettura barocca e italiana trasferita fra i boschi del Nord e dalla storia fissata in ogni pietra, città con quattro chiese cattoliche, ma anche numerose sinagoghe: a quei tempi gli Ebrei la chiamavano la Gerusalemme del Nord») , esule dalla Polonia sin dal 1951, premio Nobel nel 1980, Czeslaw Milosz (1911-2004), come un altro grande polacco del Novecento, Karol Wojtyla, ha segnato la mappa luminosa e splendente dell’unicità polacca.
Nel mondo freddo della Cortina di ferro, nelle lacerazioni dell’ultima guerra mondiale, la letteratura ha acceso il suo inno franco, ha varcato lo spazio libero del linguaggio assimilato alle origini, al colore dell’autenticità.
Il “catastrofismo” delle sue prime raccolte, dal contesto minaccioso di Brodo di chiodi (1931), alla protesta sociale di Poema del tempo congelato (1933): «Tutto trascorso, tutto dimenticato, / sulla terra solo fumo, nuvole morte/ e sui fiumi di cenere ali che ardono/ mentre arretra il sole avvelenato / e l’alba della condanna esce dai mari», non è un annichilimento, ma travalica e dilata il respiro del tempo storico di uomini e mondo, in una dimensione di genesi cosmica, nel simbolo di una visione che sebbene si smorzi spesso nell’ironia, inizia a riflettere un mutamento di tono e di verso.
L’atmosfera e l’attesa rarefatta di una terra devastata e di una tragedia grottesca, il tumulto di scene come agli sfaccendati giocatori vicino il muro del ghetto di Varsavia, lontani dagli stridori dei convogli, pone l’interrogativo del rapporto tra la sofferenza e l’indifferenza e l’immersione in uno sfacelo che offre piccoli universi di varco, finestre lievi.
Dinanzi alla follia lucida e caotica dei mutamenti della storia e «come si muore per crudele mano d’uomo», egli ha fornito una visione assimilativa, ricolma di speranza e di tenerezza inflessibile: «Se guardassimo meglio e più saggiamente / un nuovo fiore ancora e più d’una stella / nel giardino del mondo scorgeremmo».
La scissione tra etica e estetica in atto nel nostro tempo ha fortemente imposto ai suoi occhi la responsabilità morale della poesia, o meglio dell’atto e del gesto poetico, della sua missione portatrice di salvezza, dell’unione di secoli ed ere, già cara al romanticismo polacco, da Mickiewitz fino a Norwid.
L’atto del poeta è una testimonianza di sé al mondo: «è lecito scrivere versi di rado e controvoglia, /spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza / che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento».
Un transito attraverso cui offrono il loro anelito «le voci di una definita civiltà, che grazie al cristianesimo determina un netto confine tra il bene e il male», come ponte sopra la terra.
Luce del giorno del 1953 è il suo vertice, non solo del tempo dell’emigrazione polacca, ma il soffuso soffermarsi della grazia, della presentazione del presente atteso, attraverso una poesia-saggio di formulazioni e sintesi che si offre, alla bellezza della verità, perché «il cuore non muore quando sembra che dovrebbe».
Ogni oggetto, ogni nome pronunciato, oltre il compiersi di terre e frontiere, hanno l’estasi del dono, del compimento di colori e suoni, della “vastità cosmica della visione”, come annota Josif Brodskij: «Un giorno così felice/ La nebbia si alzò presto, lavoravo in giardino./ I colibrì si posavano sui fiori del quadrifoglio. / Non c’era sulla terra cosa che desiderassi avere. / Non conoscevo nessuno che valesse la pena d’invidiare. / Il male accadutomi, l’avevo dimenticato. / Non mi vergognavo al pensiero di essere stato chi sono. / Nessun dolore nel mio corpo. / Raddrizzandomi, vedevo il mare azzurro e le vele».
La salvezza e la rinascita accompagnano il suo essere, come ricerca intensa del senso dell’esistere, dell’io che guarda l’esilio dei paesaggi dalle radici, la storia individuale che disegna le forme dell’umanità collettiva: «Mia lingua fedele, / ti ho servito. /ogni notte ti mettevo davanti le scodelline dei colori, / perché tu avessi e la betulla e la cavalletta e il ciuffolotto / conservati nella mia memoria».
Ma l’esilio non è l’immagine di una di speranza sconsolante, ma la traccia invisibile dell’universalità, quando la tensione fragile, tra intra-mondanità e salvezza necessaria, si fa controcanto di apparizioni e di bellezza tenera: «C’è molta morte e perciò la tenerezza / per trecce, gonne colorate al vento, / barchette di carta non più durevoli di noi stessi».
Ecco la precarietà che si impasta con l’invocazione, con la fecondità di un’appartenenza, di un rivolo lucente di umanità: «L’utilità della poesia sta nel ricordarci / quanto sia difficile restare la stessa persona/ perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave/ e ospiti invisibili entrano ed escono».
Anche la frammentarietà dell’impoetico, il tratto prima docile e poi sfarzosamente duro della solitudine, resta sospeso nell’ingenuità, nell’ansia del sacro insopprimibile, che tocca le espressioni della dignità sfumata dell’esistenza, come notti di segreta armonia e viscere di bagliore, tra crisantemi e luna piena, nei chiarori femminili, per inter-esistere con il mondo: «Quando c’è la luna e le donne in abiti a fiori passeggiano/ Provo stupore per i loro occhi, le loro ciglia e tutta / l’organizzazione del mondo. / Mi sembra che da una propensione reciproca così grande / Potrebbe finalmente risultare la verità ultima».