“DEFIANCE. I GIORNI DEL CORAGGIO” di Edward Zwick; USA,08.
Anno 1941: alla venuta dei nazisti un gruppo di ebrei polacchi fugge e sopravvive nelle foreste della confinante Bielorussa. La comunità, capitanata dai fratelli Bielski, raggiungerà la cifra di 1200 persone. Il film è da vedere. Narra di un episodio storico, tutto sommato secondario, ma significativo della resistenza armata al nazismo: a combattere, per sopravvivere, sono degli ebrei. Il film, tratto da un libro, affronta, anche se tangenzialmente, le ragioni per cui gli ebrei si fecero scrupolo di ribellarsi, ma di attendere. Naturalmente sottovalutando la fredda e pianificata ferocia nazista: anche perché questa si presentò a tappe, smascherandosi poco alla volta; quindi lasciando spazio a quelle componenti sociali ebraiche, le più ricche, più inclini a sposare le ragioni dell’autorità, qualunque essa fosse, con le quali e a cui avevano convissuto ed erano sopravvissute per secoli. I Bielski erano tutti contrabbandieri: quindi assolutamente malfidati verso qualunque autorità legale; per istinto compresero la natura dei nazisti, non nutrendo alcuna illusione di sorta. Essi erano ritenuti dei paria, e fecero grande fatica a scalfire la diffidenza, nutrita nei loro confronti dagli “anziani”, cioè i ricchi e influenti membri della comunità, con i quali erano in aperto conflitto di classe. Il film ce li presenta realisticamente come degli eroi “per caso”, quasi loro malgrado. E crea delle dialettiche al loro interno. Anche se si regge sulla sanguigna e prepotente presenza di Tuvià (Daniel Craig), il protagonismo non si limita a questo riuscito personaggio. Mano a mano che la narrazione si sviluppa emergono le personalità degli altri due: Zus, il combattente assoluto che aderisce per breve tempo alla resistenza sovietica, lo sperimentato e convincente Liev Schreiber; e il più giovane dei tre, Azaev, forse il più deciso e realistico, l’attore Jamie Bell, che dopo “Billy Elliot” ha trovato una performance adeguata al suo talento. Ma tali differenziazioni funzionano perché risultano di supporto alla messa in luce di sfaccettature nel personaggio complesso di Tuvià. A mio avviso è la sceneggiatura il vero segno di qualità del film. Essa scandisce con una chiarezza impressionante tutte queste sollecitazioni riflessive; e lo fa senza che l’azione ne risenta minimamente. E’ opera del redivivo Clayton Frohman, che dall’83 con il bel “Sotto tiro” di Roger Spottiswoode, aveva fatto perdere le sue tracce. La regia sostiene il percorso narrativo con soda efficacia visuale, pur se senza respiro visionario.