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Elizabeth Bishop e lo sfratto dell’altrove

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Voce poetica tra le più alte e raffinate dell’universo americano, Elizabeth Bishop (1911-1979) rappresenta una vertigine vorticosa di ombra.

Poesia di pressioni e di urgenze, abita l’osservazione e l’attenzione, come autentici crinali su cui, come scrive Seamus Heaney, si posa “una nuova attenzione e consapevolezza dell’alterità del mondo”.

In un bellissimo e interessante articolo apparso su Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro scrive: “La vita l’ha sottoposta a una sequenza faticosa e dolorosa di perdite e di abbandoni. Ma lei è sempre stata attiva in un’ostinata e inquieta ricerca. Le epifanie alle quali la Bishop ci espone sono l’aspetto luminoso di una voragine buia. Esse, più che un’ostinata ricerca, rappresentano l’attesa di una forma di salvezza. Per lei la realtà, anche se appare buia, non è mai piatta: ha sempre increspature e finestre che la rendono disponibile ad essere, all’improvviso, baciata dalla luce del sole”.

“Unica e sola”, come annota Nadia Fusini, Elizabeth Bishop raccoglie quelle fenditure che si aprono al reale, con il bilico di una visione di “immensa discrezione e di immensità discreta” (Seamus Heaney) che, assorta, porge la sua voce e l’orecchio alle sfumature e rifrazioni del mondo, a ciò che si vede, al frottage, ai segni delle iridescenze delle fratture, e, infine, all’ottica dei trapassi.

Dopo l’infanzia felice a Great Village in Canada e fonda nel 1933, al Vassar College la rivista Con Spirito, assieme a delle sue amiche, tra cui la scrittrice Mary McCarthy (in uno dei personaggi de Il Gruppo, Lakely, si rivede). Ma è in Marianne Moore che la definì “arcaicamente nuova” che la sua voce si forma bisbigliando, respirando.

I suoi numerosi viaggi tra Europa e America, poi in Florida e Brasile, dove conosce Lota de Macedo Soares, con la quale inizia un rapporto estremo che culminerà con il suicidio di quest’ultima, testimoniano il suo frammento inquieto.

Nadia Fusini scrive: “Si capisce che le piace osservare spassionatamente quel che la circonda, non le piace abbellire alcunché a suon di metafore; vuole semmai raggiungere il paesaggio, o l’animale, o l’oggetto che ha di fronte nel rispetto di una sola aura, quella del riserbo. Ma come si fa a toccare senza afferrare? A comprendere senza prendere? Lei lo sa fare. È la sua grandezza”.

La sua poesia va in scena in un fragore di schianto, in un miracolo che, nella più perfida delle solitudini, rischiara l’apertura vocale, il vagabondaggio, il gesto minuto.

Il suo primo lavoro Nord & Sud (1946) è l’attesa di una scoperta. Terranova, Labrador e i luoghi della Norvegia, finanche Parigi e la Florida, divengono l’eco di un raspamento improvviso, il cristallo che risuona nel precipizio del sogno.

Sono sentimenti estremi raccolti in un grido fragile, laddove la realtà auratica mostra la sua gemma risonante, lo spazio umbratile di una presente permanenza.

Le cose toccate o lambite da un cenno d’attrazione, da un limite di sponda dove attraccare le ciglia, rivelano uno spaesamento insistito: «Amore è il bimbo indomito e la nave, / perfino i marinai in acqua che/ vorrebbero una predella di scuola per sé/ o una scusa per restare/ sul ponte. E il bimbo in fiamme è amore.».

Ma non è una debolezza, anzi, è un’inesausta fenditura di luce: «Le palme nella brezza tesa acciottolano/ come becchi di pellicani. La pioggia tropicale scroscia/ a ravvivar le filze di conchiglie scialbe/ che la risacca intreccia:  / la lacrima di Giobbe, l’Alfabeto/ Cinese, la rara Giunonia, i pettini/ variopinti e le Orecchie di Signora, /disposti come su una pezza grigia di calicò consunto (…) e tutto questo delicatamente/ adorna la monotona, inesausta, la cedevole/ costiera».

Le parole della Bishop da Una fredda primavera (1956) (vinse anche il Pulitzer nel 1956), fino a Interrogativi di Viaggio (1965) e Geografia III (1976) sono brandite dalle scintille di una lotta, di una parabola che abbraccia i colori caldi, fino al transito dell’oscurità prorompente: «Ho perso due città, belle. E più vasti, / altri regni, due fiumi, un continente. / Mi mancano, ma non è poi un disastro».

La particolare vocalità di Elizabeth Bishop si rinviene nella zona appartata di un supremo avviso di scoperta, negli strati tenui, nella terraferma impervia, piena di senso: «Primissimo mattino, che i binari/ smisti da stella a stella cenere nel cielo/e a treni di luce agganci/ estremità di strade, / nei nostri letti traici alla luce; / spazza via l’oppressione (…) Dalla finestra vedo/ un’immensa città, minutamente esposta,/ consumata a furia di ritocchi,/ dettaglio su dettaglio,/ cornicione su facciata, / che si protende languida su un fiacco/ cielo bianco e lì sembra vacillare.».

L’imminenza di un incantevole prodigio, o la fame per una realtà che possa sbocciare, formano la sua reiezione splendente che invoca corrispondenze antiche, in un trambusto orribile ed allegro di risvegli: «Ci svegliava nel buio un ruscello sonnambulo/ che scendendo a mare/ sognava ancora in modo percettibile».

La suprema immanenza è il suo legamento tra l’io e la percezione della realtà trasfigurata, che compone figure infrante e splendide. Un itinerario di viaggio che esiste e resiste e poi respira.

L’arrivo in Brasile percorre la dismisura visionaria di un felice attracco che scopre e riscopre i luoghi, li fa vibrare, tenendoli a galla: «Ecco una costa; ecco un porto; ed ecco, / dopo una magra dieta d’orizzonte, un po’ di panorama: / monti di foggia impervia, forse pieni di autocommiserazione, / dolenti e aspri sotto la frivola verzura, / uno con una chiesetta in cima. E depositi, / alcuni verniciati di rosa tenue o azzurro, / e qualche alta palma incerta.»

Le ottanta poesie di questo viaggio scoperchiano il cielo dell’anima, come un’offerta porta, esagerata e solenne.

Eccolo il calore di ciò che è vitale, l’inizio e l’origine delle cose che si svelano precise, minuziose e ferme. È la cronaca esatta di qualcosa che accade a cui si vorrebbe appartenere, forse accarezzando il suo dileguo.

Esiste un profumo salmonico in questo territorio che si guarda e si perde, ma si vede. Si scorge in esso la sua scorza dolorosa e intensa. L’empito di un’immagine che si racconta – pur quando descrive uno sporco e desolato distributore gestito da una famiglia povera – trova il gemito di una feritoia di luce in un centrino e in una begonia. Sono gli esili oggetti che annunciano una speranza ineffabile.

Ai nostri occhi la sua geografia («La mia isola / sembrava una discarica per le nuvole») appare uno sciame di emisferi, di città, di lune abbrunate, di laghi raccolti.

Qui la “musa infallibile”, come disse di lei Robert Lowell, trova il suo specchio e il suo abbandono, la lucidità di un’ansa recondita.

Servirà forse il suo cristallo a lucidare la trappola di un’appartenenza scissa, quando apre il suo volo d’altrove e il suo sfratto, per cercare l’accurato mistero della sua solitudine.

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