Nel 1956, lo storico Robert Conquest inserisce nella New Lines, la poetessa Elizabeth Jennings (1926-2001), contemplandola in un vasto movimento (il “Movement”, appunto) di voci potenti della poesia inglese, che comprende Philip Larkin, Kingsley Amis, Thom Gunn, Donald Davie, pur sviluppando una peculiarità intensa e personale, che nella fede cristiana e nel romanticismo trova compimento e appagamento.
Scrive Elizabeth nel 1960: «Il misterioso, le emozioni suggestive, le idee […] questo io ricerco attraverso la poesia, ed è nei poeti romantici che ho trovato queste esperienze espresse nei modi più appaganti […] come se i loro versi fossero, in qualche strano modo, trasparenti, come se attraverso le parole emozioni smisurate prendessero forma […]».
Pur non discostandosi, per alcuni aspetti, dal “Movement”, Elizabeth Jennings compie una forte distinzione di prossimità, potenzia il lirismo, attraverso una linearità che sfrutta la pienezza del reale, che come scrive Silvio Raffo, persegue il tentativo di combinare il reale nella sua dettagliata linea minima e «il “sentire” individuale sfruttando al massimo grado sia la potenzialità (passiva) di suggestione-suggerimento del primo sia l’acume della penetrazione (attiva) dell’intelletto che, appunto, continua a “leggere dentro” e oltre le apparenze contingenti senza rinunciare al conforto della bellezza».
È la gemmazione dell’esperienza a far vibrare la vita di relazione, le campiture trafitte della realtà, la proliferazione delle domande ultime, la fame insonne, la tensione al Mistero: «Non è il momento adatto a modi dolci / né a sentenze solenni o astrusi orpelli, / ameni giochi o immagini forbite, / compiaciute malìe sentimentali. / Scriviamo in un’età di fame insonne – / travi di ferro, cuori tesi a piombo – / parola, non più canto è l’arte del poeta / e l’armonia deve mutarsi in rabbia».
L’esplorazione della Jennings è la meraviglia sottotraccia del dettaglio, del sentimento, delle gioie irreali e della tenerezza frammentata: «Il fulgore di quella stella che s’impone su di me / splendeva anni fa. La luce che ora / scintilla lassù il mio occhio potrebbe non vederla mai, / e così lo sfasamento del tempo mi dice beffardo come / l’amore che ama ora potrebbe raggiungermi solo quando / il suo primo desiderio è spento. Lo slancio della stella / deve aspettare occhi che lo proclamino bello / e l’amore che arriva potrebbe trovarci che siamo altrove» (Ritardo).
La gamma delle visioni diviene sentimento d’altura e rapporto, gioco di prestigio, folla di suoni e di odori, sensi vigili e «inclini a un innamoramento immune da stanchezze o cadute d’entusiasmo, la ricerca altrettanto instancabile di un senso ultimo nella perpetua danza delle cose, e dunque l’anelito propriamente ed etimologicamente religioso […]» (Silvio Raffo).
La fragilità è il sipario della gratuità, e come scrive Domenico Pezzini, soffermandosi su Oltre il possesso, testo cardine della Jennings, che è «l’essenza più pura della relazione vissuta in libertà di cuore è la gratuità: non è necessario schiacciare i petali per avere il profumo della rosa, e non è possibile, anzi è decisamente stolto, pretendere di fissare i lineamenti, nostri o altri, su un’acqua che scorre. In parole povere: la relazione, ogni relazione, con gli oggetti come ancor più con le persone, muore nel momento in cui pensiamo di impadronirci dell’altro, di mettere le mani in modo rapace su ciò che sveglia il nostro desiderio».
Scrive Elizabeth Jennings: «Le nostre immagini recedono, la rosa ritorna / a ciò che era prima che la guardassimo. / Togliamo lo sguardo da dove l’acqua scorre / ed è di nuovo un puro fiume, non scriviamo / nessun segno sugli alberi. Un modo di vivere / comincia dove non c’è bisogno di schiacciare / i petali per avere il profumo della rosa / o di marcare i nostri lineamenti là dove l’acqua scorre», perché «Ogni cosa è se stessa. Ogni uomo interamente sé, / non strappa da sé neanche il pensiero, né / porta una cocciutaggine istruita a gravare / sulla rosa, sull’acqua. Ognuno ha restituito / all’acqua la sua essenza, al fiore la sua, / finchè è aggiogato al proprio cuore e spinto / al centro ove trovare una specie privata di pace / e non una mente che riflette il proprio volto».
La gratuità è la suprema caratteristica dell’amore. Senza di essa l’amore cessa di essere ciò per cui è fatto, poiché essa permette di partecipare e conoscere l’intimità divina, «Ma deve andare più a fondo, deve giungere a un amore / dove il pensiero è libero di lasciar viaggiare l’acqua, / è prodigo con la rosa dandole la vita / e mette persino la propria ombra da parte; / fino a che fiore e acqua si fondono con la libertà della / passione che non li rinchiude e non occulta / le loro nature più profonde; ma ilo cuore è tanto forte / da battere con rosa e fiume in un solo canto».
Laddove illusione, purezza disinteressata, solitudine avvinta, dissoluzione sofferente, mancanza e attesa, lanciano il loro segno intrattabile e presente, non avviene alcuna trasfigurazione o persuasione («…per un attimo intenso un’armonia / scorgo d’una chiarezza adamantina / che non richiede alcuna persuasione»), ma «il senso segreto delle cose, della natura animale e vegetale – “the savage world” – viene rappresentato puntualmente e icasticamente nella sua forza primitiva, delirante, come enigma supremo e impenetrabile, ma da tale vibrante partecipazione e trascrizione dell’oscuro labirintico intreccio di quelle misteriose trame non deriva un senso di disperata impotenza, bensì al contrario la certezza di un ordine complessivo, di un mosaico perfetto» (Silvio Raffo).
La docilità della trasparenza permette di cogliere la transitorietà labile della datità, ma anche il fascino prodigo e creativo della sua eleganza, per abbracciare la tensione a una calma sovrana e a una quiete. Persino la compassione, in un mondo di paure, è attraversamento di soglia, visto nei volti dolorosi di chi ci circonda, come l’infermiera di Night Sister: «Come è possibile non diventare insensibile / Costruire un guscio attorno a se stessi / Quando si deve assistere a un così tanto dolore? / …non osiamo mostrare il nostro malessere. / ma tu ascolti e noi sappiamo / Che nella nostra angoscia tu ci vieni incontro».
L’elencazione delle immagini, in Jennings, avviene come fiotto di grazia, in parole che «costituiscono lo spazio in cui si svolge la danza dello spirito, fonte di gratitudine e di gioia per un’armonia ritrovata che «non è un caso». In contrappunto, accade che senza sforzo la mente sia colpita all’improvviso da una visione di pura bellezza che fa trasparire nientemeno che un «assoluto» non cercato ma trovato» (Domenico Pezzini).
La purità dello sguardo, pertanto, da un lato, trova festose manifestazioni e astri che brillano di lontananze, dall’altro, si sposa con una epifania ineludibile e con una strenuità di limite. La poesia si attesta in una irrinunciabile chiarezza, come «un dono da serbare» che riconcilia, approda, proclama Dio e si scontra con una implacata inquietudine, che non sigilla e non risolve, ma che attraverso la fede e la poesi,a permette l’accesso all’essenza delle nostre relazioni.
Nelle cromature pittoriche, Elizabeth Jennings scova il nodo di un racconto (Turner che celebra tempeste e maree, Rembrandt e il volto, Mozart e le gocce), dei passi che parlano di una ricerca e di un ritrovamento che è l’esito di un’esperienza, ossessionata dalla misteriosa intelaiatura dei rapporti tra l’apparenza e la realtà, ma che nell’obbedienza trova il suo essere peculiare: «Le percezioni dei pittori, dei visionari i lunghi / tormenti e il silenzio, qui fioriscono e parlano. / Ascolta, i nostri sussurri sono una ninnananna, / guarda, siamo trovati noi che di rado osavamo cercare / una ragazza, un bambino, un Dio giovane».
Scrive Silvio Raffo: «Per Elizabeth Jennings vale il principio wordsworthiano (quindi romantico) che la parola poetica ricompone in un corpo reale – in una sorta di mondo parallelo – il mondo delle sensazioni transeunti, principio filtrato e rielaborato attraverso le esperienze della generazione postromantica e “modernista”. Si tratta di una poesia fortemente psicologica e riflessiva, di straordinaria modernità nel dettato linguistico, personalissimo, e tutt’altro che lineare, talvolta ai limiti dell’elucubrazione sofistica» .
La coltre di Elizabeth Jennings recupera la fuga paziente dell’istante, lo incastona in una luce notturna che fonda la sua sostanza in un tempo ballerino e matericamente aereo che si schiude: «La sua notte è alla fine, lui sa che deve rompere / l’angusta volta del suo cielo. Batte / una, due volte invano. Prova ancora, / tratteggia un lampo. Ma deve tuonare, / schiantare quel suo piccolo universo / troppo sicuro. Ed il suo becco è ardito. / Eccolo, ora è fuori – un mondo di odori e spazi. / Che brividi! Ogni soffio d’aria è un vento. / Sotto le ali si ravvolge, e ignora / che prepara le penne a un tuffo in cielo. / Il sole è alle sue spalle al primo volo. / Lo sosterrà, librato ai venti veri / e per nutrirsi tornerà d’istinto / più grande di sua madre, avido d’aria / ad assillare lei con la sua fame».
È l’epifania del buio («Forse il buio dovevo attraversare / per poi amare davvero»), che sembra artigliare l’aria e resistere, ad illuminare il folto fondo delle comete e la certa resurrezione, il caleidoscopio e il mosaico del mondo proteso («Il nascere e il vanire delle cose, / le gemme e un paio d’ali tese in volo»), come cattedrale immensa di echi e frastuono: «la mia mente / abbisogna di chiese dai grandi echi e del frastuono / delle strade fuori dal suo luogo di calma».
Ma la parola non è un’eco vaga, non si ciba della secchezza del vuoto, ma è l’esito di uno splendore stupito e fondazionale che cambia e ricrea il mondo, su un rocchetto di filo, su una spola: «Sussulti nella mente – / ti cercano, ti afferrano, / ti attaccano – è un assalto – / d’un tratto ecco si placa / l’eccitazione – e trovi – / la parola – risplende – / come una scia di fiume / che resta luminosa / benché sottratta all’acqua / e sulla terra ormai. / Si scrive su un rocchetto / di filo, su una spola».