Il poeta russo Sergej A.Esenin (1895-1925) è stato vittima, da molta parte della critica e non solo (così come la sua fine: fu veramente suicidio? Molti dubbi aleggiano a tal proposito, se non certezze vere e proprie sull’assassinio da parte del regime comunista), di molti luoghi comuni ed etichette: da poeta rivoluzionario o peggio ancora delle bettole. Ciò che conta è la purezza della sua voce cristallina e struggente. Un poeta viscerale, attaccato alla terra come archetipo primigenio di bellezza e identità, alla verità della campagna e anti-ideologico tout court. Ma è anche poeta di contrasti, non semplicemente visti nell’accezione città-campagna, ma attraverso la netta differenza tra i sentieri e le vie dei due universi, tra il vissuto e la sua disperazione.
Non esiste su di lui un ‘sistema’ di etichette ma non perché fosse una miscela, per quanto esplosiva, di anime, ma perché l’immaginismo e un certo paganesimo albergano sì nella sua poesia, ma come intima lirica e voce animista e cristiana-ortodossa al tempo stesso. Scrive il grande slavista Eridano Bazzarelli: Il <<mondo>> di Esenin, pagano ma anche cristiano, esisteva ed esisteva in profondità, assai prima delle sue (e altrui) elucubrazioni sul paganesimo, e le sue osservazioni, tratte dai libri sul folklore russo, sugli asciugamani o sulle camicette russe, i cui ricami erano, appunto, come una marea di opere ha mostrato e dimostrato, rappresentazioni simboliche per così dire perenni nella tradizione millenaria dei contadini (…). Il suo <<erotismo panteista>> si accompagna alla natura e alla patria, come approdo contadino di una metafora che è vita e compiuta realizzazione. Non è mai artificio la sua metafora ma esistenza che sgorga: la segale, l’acero, il sorbo (tanto caro a Pasternak), e gli animali sono partecipi dei movimenti del cosmo e della sua anima, in una grammatica, oseremmo dire, quasi ‘francescana’. La patria, in ogni poeta autentico, non è mai un centro sentimentale e retorico, è la tensione di una materia vivente, melodiosa, e come scrive ancora Bazzarelli: Esenin la vede, la ama e la canta dal basso: se ne sta coricato sull’erba di un prato o di un campo di grano, o vicino a un mucchio di letame, ai piedi di una amata betulla o di un’amata muccherella: <<Eccola, la dura crudeltà, / Il cui senso sta nella sofferenza della gente. / la falce taglia le spighe pesanti, / come si sgozza un cigno alla gola>>.
La sua Rus’ arcaica e solenne, mitologia antica della povertà delle cose, lascia riposo al suo scompiglio interiore, alla vibrazione amorosa del canto umile e dolce. Un canto d’amore che smaglia il cielo stellato, per le donne vissute come respiro d’uomo e unite intimamente al “tintinnare” dell’universo.
Le donne amate, rifiutate, sono incontrano come si incontra la tenerezza e il palpito del corpo. Una sensualità calda e bisognosa di protezione, quasi sensibilmente egoista. Ha bisogno di loro, del loro campo aperto e assoluto: <<So solo che il rame dei salici/ A settembre è rimasto a me e a te>>.
<<Rame>>, scrive Bazzarelli, è una parola che Esenin ama. La parola è riferita sia agli alberi che alle fanciulle: il <<rame>> degli alberi ricorda in genere il colore delle foglie autunnali, il rame delle fanciulle, si riferisce al colore ambrato della pelle.
Poesia di terra. Materica. Come la Persia che rievoca la nostalgia della sua lontana terra, del villaggio con le sue fisarmoniche e le anime che lo popolano. Ma soprattutto sua madre che lo attende con il suo grembiule proteso.
Il senso della sacralità di Esenin è il linguaggio della poesia, un inno sacro e biblico, profetico e religioso, come una galassia di paragoni e ritmi che scandiscono l’oro delle immagini e del tempo verso uno spazio felice (Inonija). La religiosità eseniana è anche colma di tenerezza verso la madre di Dio e in genere, egli ha verso il cristianesimo un’accoglienza e una sorta di riluttanza per il sacrificio e la redenzione che quell’avvenimento comporta. Un dio contadino in cui Inonija, nuova Nazareth è la Russia nuova e celeste.
Angelo Branduardi trasse spunto proprio da un componimento di Esenin “La confessione di un teppista” per la sua “Confessioni di un malandrino”. Qui la nostalgia del rauco suono dell’ontano si accompagna all’odore dei campi nativi, ai <<grugni infangati dei porcelli, alla <<voce risuonante dei rospi>> e il teatro del vissuto e del ricordo si fa canto struggente, auto- confessione, biografia di debolezza e richiamo disperato. Come il popolo russo, egli non muore ma è anima orgogliosa e fiera che abita i campi, come vento che tocca i rigogli della terra nell’umido d’aprile.