Nelle pagine della letteratura di ogni tempo ogni storia è un luogo di memoria, di invocazione, di domanda di stupore e – allo stesso tempo - di adesione a qualcosa che sembra fuggire e non si arresta mai. In questo nostro breve viaggio tra testi di ogni epoca, siamo andati alla ricerca di un punto solo: un Evento. L’Attesa di un Evento, con il fuoco di parole accese e di lingua viva. Gianni Rodari, ne Il pianeta degli alberi di Natale, con illustrazioni di Bruno Munari (Einaudi ragazzi – 2008 - pp.142), scrive una favola in bilico tra mondi fantastici e al contrario. Un bambino viene portato su un vascello nello spazio e incontra alieni che vivono in un cosiddetto “pianeta della cuccagna” e si applicano nelle scienze, nelle arti e nella politica. Perché questa tematica apparentemente così evidente e sottile? Rodari in questo racconto realizza negli occhi dei bambini un ponte proteso a ciò che saranno domani, agli adulti che non dovranno smettere di avere la vivacità di ciò che non ha punti scuri, anche quando saranno governanti o si dedicheranno ad altre attività umane, ma partendo da invenzioni strane come la caramella istruttiva o la tristecca ai ferri. Esiste un pianeta degli alberi di Natale? Sì. Verrebbe da dire. Un pianeta per gli adulti che imparano dai bambini il mondo. La realtà, pur nella sua dolorosa e straziata apertura, offre sempre qualcosa che si apre a uno spazio nuovo ricolmo di innocenza e candore. Tra il febbraio e l’aprile del 1912 Guido Gozzano andò in India e, peregrinando i solchi di Stevenson, raggiunse l’esotismo delle sue spiagge per curare la sua tubercolosi. Si riverberò due anni dopo sulle pagine della Stampa di Torino e queste esperienze furono raccolte nel volume Verso la cuna del mondo, in una serie di meditazioni di diario di approdo, di sogno trasudato, in un luogo antico e remoto, trasformato in scrittura fertile. Un Natale a Ceylon e altri racconti indiani (Garzanti – 2005 - pp. 2005, a cura di Piero Cudini) ci parla di un’India che all’inizio sembra non dir nulla. Muta e non viva. Ma pian piano si ri-crea diventando essa stessa percorso da novello Ulisse, viaggio verso la cuna del mondo, appunto. Viaggio che si fa racconto di esperienza, in bilico tra fatto e letteratura, tra uomo e personaggio, in una morte di legami con una provincia lontana, ma che recuperano una tradizione di antichi viandanti, scomodando Montesquieu o Gulliver e riappropriandosi di una identità peculiare. Realtà di simbolo, di mutazione simbolica, per meglio dire, che esprime però l’esistenza di un luogo dove poter esprimere se stessi e la propria tensione. Gozzano sente l’inafferrabilità e incomprensibilità del reale, ma, quando questo diviene linguaggio, parola, atto, ecco che subentra un respiro nuovo, una percezione nuova: <<Il porto interminabile ci resta a poco a poco alle spalle: dirada la selva dei piroscafi, dei velieri, delle giunche; qualche zattera vaga ancora sul mare di stagno, sul quale emergono frequenti le pinne dorsali degli squali o balzano improvvisi, a frotte, i pesci volanti. Cielo e mare si confondono in una calma eguale, senza limiti, incolore. Si ha l’impressione di navigare nel vuoto; al tempo delle origini, quando i mari caldi nutrivano i germi dei plesiosauri e delle felci colossali, le acque e i cieli immobili dovevano avere questo silenzio d’attesa. Ma d’improvviso, come sospesa nello spazio, disegnata sopra una parete di cristallo, si profila l’isola di Elefanta [...] Il caldo provoca i miraggi, scompone l’aria, la fa vibrare, oscillare all’orizzonte col tremolìo del rivo sulla sabbia; l’isola d’Elefanta, già prossima, s’addoppia, si riflette quadrupla, s’avvicina, s’allontana, scompare. Quando riappare, siamo giunti>>. Giovanni Guareschi scrive la sua Favola di Natale (Rizzoli BUR pp.93) nell’inverno del 1944, durante la prigionia nei campi di concentramento, per allietare i compagni durante il loro secondo Natale da prigionieri: <<rannicchiato nella cuccetta inferiore di un ‘castello’ biposto, e sopra la mia testa c’era la fabbrica della melodia. Io mandavo su da Coppola versi di canzoni nudi e infreddoliti, e Coppola (suo compagno di prigionia nda) me li rimandava giù rivestiti di musica soffice e calda come lana d’angora>>. Narra anche di Albertino, un ragazzino che impara una poesia da recitare al padre per la vigilia di Natale, ma quest’ultimo, prigioniero di guerra, è assente e il bambino è costretto a recitare la poesia davanti a una sedia vuota. Un attimo: la finestra si apre all’improvviso, trasformando quei versi innocenti in un uccellino accolto dal vento. Con il suo cane Flick ,decide di mettersi sulle orme del padre verso la terra della Guerra e dopo tante vicissitudini raggiunge la Foresta degli Incontri, dove finalmente incontra il padre per vivere assieme quella notte che cambia la storia dell’umanità. Lo scrittore abruzzese Mario Pomilio, nel suo Il Natale del 1833 (Premio Strega 1983), ripercorre l’omonima lirica di Manzoni, abbozzata e mai del tutto terminata dopo il 25 dicembre del 1833, data della morte della sua amata moglie Enrichetta Blondel, prostrata da continue gravidanze e salassi. Pomilio offre una sofferta e lacerante indagine sul significato del dolore e sulla sofferenza che attraversa il dramma dell’uomo. Manzoni viene esplorato come un viaggio nell’anima, tra immaginazione e sguardo acceso sull’evento che ha cambiato la vita, prima che la storia letteraria del grande poeta e scrittore milanese. La letteratura non è solo consolazione, altrimenti sarebbe sterile esercizio di tenerume sentimentale, ma è ciò che dà il mondo e il suo mistero. Il nostro viaggio si conclude con Primo Levi e il suo L’ultimo Natale di guerra (Einaudi – 2002 - pp.141, interessante anche nella postfazione di Marco Belpoliti), che raccoglie i racconti “dispersi” scritti tra il 1977 e il 1987 e pubblicati per la prima volta nel 2000. Pur tra personaggi strambi e inconsueti, come un canguro che partecipa a una cena borghese o una ragazza a cui spuntano le ali o perfino un extraterrestre che intervista una passante, viene interpellata sia la realtà onirica, cara allo scrittore, sia la vera e propria apologia morale, in intervalli ironici ricchi di verve narrativa. Scrive Primo Levi: <<Fu un Natale memorabile per il mondo in guerra; memorabile anche per me, perché fu segnato da un miracolo. Ad Auschwitz, le varie categorie di prigionieri (politici, criminali comuni, asociali, omosessuali ecc.) potevano ricevere pacchi dono da casa, ma gli ebrei no. Del resto, da chi avrebbero potuto riceverne? Dalle loro famiglie sterminate o rinchiuse nei ghetti superstiti? Dai pochissimi sfuggiti alle razzie, nascosti nelle cantine, nei solai, atterriti e senza quattrini? E chi conosceva il loro indirizzo? A tutti gli effetti, noi eravamo morti al mondo. (…)Non eravamo più soli: un legame col mondo di fuori era stato stabilito. E c’erano cose deliziose da mangiare per giorni e giorni. Ma c’erano anche problemi pratici gravi, da risolvere all’istante: ci trovavamo nella situazione di un passante a cui venga donato in piena strada un lingotto d’oro. Dove metterlo? Come conservarlo? Come sottrarlo alla cupidigia degli altri? Come investirlo? (…) Il resto non era del tutto sprecato, qualche altro affamato stava festeggiando il Natale a spese nostre, magari benedicendoci. E comunque, di una cosa si poteva essere sicuri: era quello l’ultimo Natale di guerra e di prigionia>>.