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Franco Loi, ladro di Dio

franco-loi NZO

La poesiadi Franco Loi (1930) conosce il fiato dell’obbedienza. L’eco del dialetto preme nella sua pagina ha una voce fatale che induce a meraviglia, come a un vento lontano che tocca lo stupore e il dolore di un benedetto richiamo.

L’indefinito delle sue vedute cresce come la naturalezza di un fiato sperduto o l’imprecazione di un vetro smosso o infranto, come uno sperduto saluto.

Si potrebbe attribuire al suo estremo libro Lader de Diu (Quando Dio canta), ciò che scrive Nicholas Cabasilas: «Conoscere per esperienza […] vuol dire raggiungere la cosa stessa: qui perciò la forma si imprime nell’anima e suscita il desiderio come un vestigio proporzionato alla sua bellezza».

È il segno di un inizio e di un cammino, segnato dal desiderio non egoico, ma aperto alla musica del mondo e al tocco di un abbandono indifeso.

Loi attraversa in modo attuale la Milano di oggi, in una lingua di aria reale e consistente, che si appropria dello strappo della contemporaneità e del proprio alito, per affermare e sentire il vigore di Dio.

La poesia, quasi salmica, ha il vertice, in ciò che scrive Giuliano Ladolfi, in un esclamativo che dilata il dramma di un bisogno irriducibile e inestirpabile: «Come abbiamo bisogno di Dio! come siamo lontani!: questo il tormento dell’uomo e del poeta, questa è la meta della sua quête, questa è l’angoscia di una vita e di una condizione. I versi di Franco Loi sono religiosi nel senso più profondo del concetto: Dio si trova insito nel suo intero essere, nel suo pensare, nel suo agire, nel suo amare; per lui è l’Alfa e l’Omega, è la gioia e il tormento, è presenza e assenza, è voce ed è silenzio, è realtà e sogno, è verità e assurdità; Egli è vivo e operante nel rapporto con il mondo».

È proprio nel respiro del patimento («Nel ventre della vita Dio ti fruga»), nel mistero eterno dell’essere, nello smarrimento di una «voce che corre su un filo del suo chiamare», che avviene l’ebbrezza inquieta di una tensione trepidante.

Siamo ladri d’Infinito e nella nostalgia di un amore inquieto, l’uomo che pronuncia Dio, attende il suo rivelarsi, come una sentinella che veglia il ritorno a casa di qualcuno, nel silenzio sottile di una notte accesa.

La città di Milano, «città che ormai si sfascia», dove camminano le «donne vestite  di signorilità agli occhi», celebra la sua apparenza lucida, la mancanza di gusto, la violenza di un inferno strangosciato e bruto, in cui si respira, al contrario, una cantilena d’incontro e di abbandono.

In essa Loi promana un canto ruvido che delinea un movimento di amore e una gioia totale che  ammanta la distanza tra l’io e gli altri: «Se cammino per Milano in una qualche strada, / parlo con gli alberi, parlo con le pietre, / chè di parlare cerco sempre con la vita/ e con l’ombra che porto alle spalle / – e dico chiacchierare, ma è come nei sogni, / un soffio dell’anima che giunge alle spalle / e l’aria che si muove dà forma ai sogni».

Nello sgranarsi del mondo e nelle deturpazioni, lo sconcerto non si tramuta mai in disperazione, perché come scrive ancora Ladolfi: «Canta il poeta, canta Dio, canta il mondo: melodia e armonia si fondono in un’architettura musicale che inonda lo spirito. Per tale motivo il pessimismo che deriva dalla sconsolata visione di un presente avvilente lascia spazio ad un inno francescano («dobbiamo ringraziare persino l’aria che respiriamo») in cui tutto l’universo viene riscattato dal limite causato dalla debolezza umana».

Il niente che accade ed entra prepotentemente in questa fame che sembra nulla, ma è consistenza di gioia vera, ritrova una pungente e ariosa nostalgia di paradiso, nel soffio che fa comunicare il cuore con la sostanza del mondo.

Questa poesia entra nel magma del dettato amoroso in un innamoramento che si innalza e si riempie di posti, ricordi, fermenti di lacerazioni stordite e «proprio in questa “tensione sinallagmatica” di presente e futuro, di materia e spirito, di tempo e di eternità va interpretata anche la scelta stilistica di un’unione intima tra concretezza di metafore quotidiane come il pane, il cane, la spazzatura, e l’indeterminatezza della luce, del vento, dell’aria, che nella concretezza ontologica di una reale percezione sensoriale risultano prive di dimensioni e non completamente dominabili». 

L’infinito della tensione e del verbo è apertura e sgocciolio di porte, convoca la prospettiva al dilatarsi di una melodia infinita, in cui la presenza biologica dimora negli oggetti e la voce obbedisce al richiamo nel mondo di una fame salvifica.

La ferita dell’essere è la sostanza di un incastro carnale perfetto e ineludibile tra l’abbandono impastato della città e la corale di una pazzia: l’esser pazzo e ladro di Dio.

È la sua aria che gli interessa e insegue. La cifra del destino e del raggiungimento che affila la parola e l’anima nel dispendio di sé, come un bimbo curioso verso uno spillo.

In ciò l’inquieta e indocile, persino indomita, ricerca del poeta milanese è il segno di una risorsa lucente, in cui il misterioso segreto fissato nell’esperienza raccoglie il nido di una promessa di felicità.

C’è come una possessione che non arranca, una possessione musaica che si bagna del concreto dell’esistere, per farsi feritoia e vanto di eterno, obbedienza e sacrificio, come scrive Luigi Giussani: «Obbedienza vuol dire abbandonare sé per seguire un Altro, perciò è l’unico vero completo sacrificio. Il che non è necessariamente solo dolore o rinuncia, ma è anche la legge che ci rende grandi e lieti e che ci fa avere, secondo il Vangelo, il centuplo ora, in questo tempo».

L’alimento, da cui trae la linfa la poesia è una penombra screziata, un vedersi come un sognarsi e «c’è nebbia tra le ombre del nostro passare»: «Se mi addormento in me mi viene paura, / è come perdere la vista, chiudere un portone, / trovarsi di notte per una salita buia / dove l’ombra che io ero non ha più luce… / E dove sono? Quale aria mi ha mosso? / Più cammino e più mi gira la testa, / non sono più io ma un altro che dietro il muro / cerca Dio e lui si tiene nascosto, / forse scappato dietro di me dove c’è buio».

L’esistenza che si rinnova e geme, povera e gloriosa, situa il suo sottile silenzio nascosto, nasce e muore e rinasce ancora, sfogliata di alberi, in un tocco d’amore: «La vita è nascosta nella vita / e l’essere di lei è come il bel fiore del nascere, / sono lì le cose di Dio, sono lì a toccarti, / ma come sono lontane le cose dal suo tastare! / è lì la luce, e il cielo è dentro lei / come la foglia è dentro gli alberi sfogliati».

 

FRANCO LOI,

Lader de Diu (Quando Dio canta),

Ladolfi editore, 2013, pp.80. Euro 10,00

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