La poesia di Ghiannis Ritsos (1909-1990) è uno scorsoio di simboli, di panorami che folgorano, per vastità, per mito e bagliore.
Ma è uno scorsoio di appello e domanda. Come il suo taccuino febbrile, sul quale consumò, abbandonò, vegliò parole, come un sirtaki di ciglia e veglia.
Più di cento raccolte (complessivamente qualcosa come duecentocinquanta testi pubblicati), fatte di detriti e rivoluzione, di iperrealismo e slancio onirico, di corsa della storia nel canto funerario bizantino, nel mare di gente, rinnovando il suo linguaggio, in una danza mitica e primigenia, laddove Oreste, Tiresia, il tarlo delle maschere, fanno capolino, in un percorso ininterrotto, in un retaggio classico e splendente.
Non è stata facile la sua vita. Nato a Monemvasìa nel lontano 1909, paesaggio di catarsi e di lotte accese, declinò la sua Grecia in un gorgoglio ieratico e sacrale, depredando il guardaroba del mondo, accendendo profezie.
Ma è una poesia di riva sospesa, così come le voci delle persone, sono affreschi di istanti che popolano il mondo, messi che collezionano la realtà: la donna in paglietta che porta la purezza abbagliante della scena, il suo oblìo, la sua scena riarsa o gli occhi chiusi in spiagge assolate, perché «Le mie mani ti ricordano/ più profondamente della mia memoria».
La Grecia conosciuta da Ritsos, e da lui nutrita ed abitata, percorre il lutto e l’assenza, ma anche la malattia e la lotta per la resistenza, contro i nazisti e i colonnelli.
Ma è anche la Grecia di provincia, isolana: il porticciolo, le sirene e i battelli, le torri fiere, i limoni come schegge di luce, le fritture di pesce, il vino che colora le labbra.
Sono i suoi luoghi, è la sua anima da viandante e funambolo, che partecipa alla polvere e al passato, come città calcinate da solitudini, come un canto di strada che specchia edifici.
In Il funambolo e la luna Ritsos unisce la sua voce in un germoglio di polifonia, laddove la sua voce- guida avvampa, vive il trapassato, rievoca cadenze antiche.
Nell’immagine si delinea una trama, il circo che compie il suo giro, gli anni che diventano materia e tela di piste di tempo, di storia, di promesse. Ma laddove c’è il funambolo, esistono l’ascesa e il volo, la domanda ultima che abbraccia e ricolma il vertice dell’essere.
Scrive Ezio Savino: “Ma su tutto incombe lui, il Funambolo, muto eppure eloquente con le sue movenze d’arte, che vacilla ebbro in un punto del decollo, è sospeso nel cielo; esibisce i sandali dorati, precipita nel passato mutando la sua liscia asta con il giglio del principe effigiato sugli affreschi di Creta; si ritira stanco dietro i vetri della luna, raccoglie la sua fune in una splendida ciambella (…), danza su un raggio teso sopra il caos, partecipa al corteo dei miti; incede nell’aria, cammina sulla sua fune, sotto la luna, con un’orgogliosa destrezza che dissimula tutto”.
Il poeta è l’uomo che scende, nel transitorio, per decifrare il silenzio e la massa intricata dell’esistere.
Guardare la colonna delle formiche, la limpidezza delle cime, la città che anima la sua anima e porge i suoi diamanti nella memoria del presente:«Perché tu eri solita/
camminare scalza per le stanze, e poi ti rannicchiavi sul letto,/ gomitolo di piume, seta e fiamma selvaggia. Incrociavi/ le mani sulle ginocchia, mettendo in mostra provocante/
i piedi rosa impolverati. Devi ricordarmi così – dicevi; ricordami così, coi piedi sporchi; coi/ capelli/
che mi coprono gli occhi… /Dunque, come potrò più avere voce. La Poesia non ha mai camminato così/ sotto i bianchissimi meli in fiore di nessun Paradiso».
Il paradiso del principio e della fine. Oltre la fine. Quando il volto e il corpo della donna divengono il giacinto che ricopre assenze e implora vicinanze sparse, in un profugo regno di Bellezza e sinuosità.
Ma è un panorama che sfronda l’anima, proprio perché la morte è l’eredità di Persefone che gioca sul portale del suo trapezio, spalancando epicedi scuri: «Io so che ognuno di noi corre da solo all’amore, / da solo alla fede e alla morte. / Io lo so. Io l’ho provato. Questo non aiuta. / lasciami venire con te.»
La poesia è quel viaggio autentico che germoglia nel petto e apre il cuore alla foce dell’essere, che invade il tempo di lasciti e estremità: «Disse: Credo nella poesia, nell’amore, nella morte, / perciò credo nell’immortalità. Scrivo un verso, / scrivo il mondo; esisto; esiste il mondo. / Dall’estremità del mio mignolo scorre un fiume. / il cielo è sette volte azzurro. Questa purezza/ è di nuovo la prima verità, il mio ultimo desiderio».
Le cose incontrano il loro teatro antico, la verticalità che, nel ditirambo, pronuncia il suo eterno grido.
Ghiannis Ritsos insegue la luce, il baluginìo dell’istante che governa la scala amorosa e diteggia tinte dense, smerigliando gioia e ferita: «Il bel sole d’ottobre ha ubriacato le farfalle – migliaia di farfalle bianche corrono sui cardi, / sul granturco giallo, sui bassi fondali della spiaggia, / a caccia delle loro ombre azzurre».
Il suo scenario è il territorio in cui intinge la sua penna dorata di luce. Quando il cuore insegue le dimore dell’infinito, si ritorna alla sua dimensione primordiale, alla forza inarrestabile e irresistibile dell’amore, al corpo che si fa segno e pronuncia l’angolo santo degli amanti.
I monti, le baie, fino alle anse e all’acqua d’oltremare, offrono richiami di orli, toccano i lembi del passato, rivivendo, in un fischio notturno e in un tremolio di carne: «Le luci della dogana e della taverna sul mare spente. / Solo la notte con le stelle false».
La dinamica poetica di Ritsos è un istante rapito dal nulla, scarmiglia l’estate, descrive la scena che accade come in fotografie a colori, percepisce la luna nella sua vertigine ultima, il ‘tu’ che ricorda il corpo femminile, illeso e proteso: «Conosci quell’istante del crepuscolo estivo/ dentro la stanza chiusa; un tenue riflesso rosa / obliquo sull’assito del soffitto; e la poesia / incompiuta sul tavolo – due versi in tutto,/ promessa inadempiuta di un meraviglioso viaggio, / d’una certa libertà, d’una certa autosufficienza, / d’una certa (relativa, beninteso) immortalità. / Fuori, per strada, di già l’invocazione della notte, / le ombre leggere di dèi, uomini, biciclette».
La scena del mondo si ricompone e riaccade nelle sue soglie, così come «gli oggetti colloquiano in segreto», scivolando nei greti del seno di un giorno glorioso, «sette volte azzurro».
Sepolto sotto una lapide spoglia, dopo malanni che ne hanno fiaccato solo la sua superficie, Ritsos abita l’aria salmastra della sua terra.
Soggiorna nella sua voce terrestre e profuga.