Esiste una scelta di carattere ideologico-sentimentale di Leopardi alla base della separazione di Alla sua Donna dal gruppo delle canzoni del 1818-22, con cui essa faceva corpo nella raccolta bolognese del 1824, una scelta di posterità ideologica e stilistica rispetto al complesso delle canzoni e degli idilli. Scritta alle soglie delle Operette Morali, la canzone ne preannuncia le persuasioni radicate e il tono di una meditazione svolta su una trama di impianto fortemente razionale, ma ancora scandita dai moti del cuore.
Accanto all’anticipazione dei motivi tematici propri delle Operette, c’è ancora nella canzone l’eco dei primi idilli, ma anche la consapevolezza del disegno di solitudine che fatalmente imprigiona il poeta. Il canto è, dunque, un doloroso addio alle illusioni, nel momento in cui più amara si rivela la loro inconsistenza; ma soprattutto un congedo dalla più alta di esse, l’amore, perenne e inesplicabile risorgere della speranza e del desiderio di vita: Cara beltà che amore /Lunge m’inspiri o nascondendo il viso,/ fuor se nel sonno il core/ ombra diva mi scuoti,/ o ne’ campi ove splenda/ più vago il giorno e di natura il riso.
L’ispirazione più intima della canzone consiste nel senso perplesso e smarrito di un paradosso esistenziale: le illusioni sono irrazionali e tuttavia rappresentano l’unico vero conforto dello spirito umano, la risposta al nulla. Si avverte una tensione radicale e primordiale di fronte alle cose: la “beltà” che appare quasi in penombra, nascosta dietro un volto femminile o dietro il fascino di un sogno notturno, desta un’attrattiva, un desiderio. Esiste, nel rapporto paradossale tra condizione esistenziale dell’uomo e illusione, l’evidenza di una positività affascinante nel dramma dell’umano, una positività che nasce dalla Bellezza, dalla nostalgia di Bellezza, moto pregresso di una vera e propria profezia dell’Incarnazione. (“Già sul novello/ aprir di mia giornata incerta e bruna,/ te viatrice in questo arido suolo/ io mi pensai).
Il componimento si apre su universi multipli: da un lato la natura fantastica e proiettata nel passato dell’età dell’oro, alla quale è connesso il rimpianto di una felicità perduta; dall’altro un futuro post mortem e dunque altrettanto fantastico di speranza e attesa, che sembra promettere di colmare il desiderio di felicità.
Per un momento, Leopardi sembra evocare l’idea che la realtà che tocca l’uomo possa essere vista come segno (qui però in termini comunque illusori) che rimanda a qualcosa di trascendente e che rende l’uomo stesso consapevole di non essere definito dai propri limiti e dai limiti del rapporto con essa. Si avverte, nell’uomo Leopardi, il desiderio insopprimibile di un incontro che colmi la sete di una “cara beltà”: Se dell’eterne idee/ l’una sei tu, cui di sensibil forma/ sdegni l’eterno senno esser vestita, / e fra caduche spoglie/ provar gli affanni di funerea vita. Riguardo alla donna, simbolo di bellezza, la ragione non è uno strumento di interpretazione pertinente, non è la misura dell’essere, perché, nella bellezza, questo deborda e sovrasta la ragione stessa. Il rapporto mancato, ancorché invocato, con la donna comporta un rimanere al di qua dello svelarsi del vero, un mancare l’incontro definitivo, e, nello stesso tempo, il persistere del desiderio vasto e indefinito di esso. Leopardi vive in modo drammatico e profondo la sproporzione dell’uomo di fronte alla realtà nella sua interezza, nell’intuizione pregressa di un Qualcosa che compie, che soddisfa le esigenze del cuore. Il suo messaggio vive di un tenero inseguimento: è il grido e la preghiera dell’uomo a che Dio gli diventi compagno ed esperienza.
Come osserva Davide Rondoni, l’operazione leopardiana riguardo alla memoria si oppone specularmente a quella dantesca, nella quale immaginazione poetica e memoria tendono a coincidere. In Leopardi, al contrario, tra la prima e la seconda c’è ambiguità e frattura: entrambe si esprimono nell’oscillare dell’io che “si confonde quasi col nulla”, nella coscienza del Pastore errante o dell’“ignoto amante”, che rivolge la sua laica preghiera alla donna “che non si trova”
Scrive Giulio Augusto Levi, uno dei più grandi critici del poeta, nell’introduzione ai Canti:” Non credette in Dio, ma pochi erano nati ad amarlo più di lui; cercò inutilmente nel mondo quegli attributi di perfezione, di bellezza e di bontà infinita, che appartengono a Lui solo; non seppe penetrare il fitto velo che gli nascondeva, colpa in gran parte dei tempi, l’Oggetto reale del suo desiderio. Perché Lo desiderò con tanta passione, gliene discese per arcane vie nelle sue opere quel raggio di divina bellezza; ma perché non Lo riconobbe, il suo desiderio gli fu cagione di tanto dolore”.