La fuga dall’inferno libico può diventare una corsa disperata verso la salvezza. Ma può comportare scelte drammatiche da prendere in maniera convulsa. È questo il caso di Deren G., una giovane donna turca che lavorava da sei mesi insieme a suo marito per un’impresa edile di Bengasi: insieme si erano risoluti a scappare dai bombardamenti e far ritorno a casa. Ma spesso il passaggio da volontà ad attuazione non è così semplice, soprattutto se si tratta di attraversare un paese in guerra.
La storia di Deren viene raccolta dal primo quotidiano turco, l’Hürriyet Daily News, proprio mentre la donna è ancora piena di preoccupazione per le sorti del suo uomo, rimasto bloccato in Libia.
<<I nostri colleghi ci avevano avvisato che il 17 febbraio sarebbe stato il giorno della collera, e che nelle strade sarebbero scoppiati scontri; gli stessi funzionari del campo di costruzione ci avevano chiesto di non venire a lavoro, perché sarebbe stato evacuato tutto dalle forze di sicurezza libiche. Ma non ci aspettavamo di vedere queste ultime lanciare molotov e provocare incendi, mentre la gente del posto è stata sempre rispettosa nei nostri confronti>>.
Sabato scorso, nel terzo giorno di protesta, Deren e suo marito ottengono l’autorizzazione a lasciare il paese e si dirigono verso l’ambasciata, ma durante il tragitto vengono bloccati dalle barricate erette dalla polizia libica. Solo dopo molte ore riescono ad ottenere il visto e vengono trasferiti direttamente in aeroporto: <<nel corso del tragitto di 40 km verso l’aeroporto internazionale di Benina (vicino Bengasi), ho visto cadaveri dappertutto, erano come un tappeto umano per le strade>> dichiara Deren, aggiungendo sconvolta di essersi sforzata per non guardarli.
In aeroporto campeggiano oltre 2700 persone disperate e impaurite, che aspettano di imbarcarsi per lasciare la Libia. Mentre l’attesa si fa interminabile, nessun volo viene annunciato. <<Dopo 24 ore cercavamo di riposare, ma non è stato facile, perché sentivamo la violenza dei raid nelle strade e sapevamo che non ci sarebbe stato nessuno a proteggerci in caso di attacco>>. Quando finalmente viene organizzata la lista dei passeggeri dell’aereo per la Turchia, arriva anche la notizia shock: solo le donne e i bambini sono autorizzati a partire con un primo volo. <<Nonostante la paura e la tensione di quei momenti io e mio marito abbiamo preso la decisione che ritenevamo più razionale, non ci siamo separati, ma io ero abbastanza sicura che avremmo preso assieme l’aereo successivo>>, continua Deren. <<Ci siamo rassegnati a un’altra attesa, e dopo 5 ore ci hanno fatto incamminare verso il check-in. Tenevo stretta la mano di mio marito, ma poi durante l’imbarco hanno iniziato a urlare che il suo nome non era sulla lista: lui mi ha implorato di andare comunque, dicendo che sarebbe tornato a casa con l’aereo successivo; non c’è stato il tempo di discutere, e ho dovuto lasciarlo>>.
<<Quando la sera sono sbarcata in Turchia e ho visto in televisione cosa avevano fatto all’aeroporto di Bengasi mi sono sentita male: era totalmente in fiamme e ho pensato che mio marito fosse ancora lì>>, continua Deren: <<Poi hanno inquadrato le aree in cui lavoravamo per l’azienda ed erano stati letteralmente rasi al suolo. Grazie a Dio sono riuscita a comunicare ieri sera con mio marito, mi ha detto che è in attesa di partire a bordo delle navi turche dal porto libico di Derme>>.