La poesia di Pascoli è una poesia della visione. Ambiguità, incertezza e impersonalità del vedere, oscillante tra stupore e smarrimento, tra tormento ed estasi, rassegnazione e speranza che anela ad una realtà quasi impalpabile, che sembra presagirne la presenza ma risulta poi ostruzione alla percezione.
È un vedere intuitivo precluso all’ ascesi o ad itinerari trascendenti, e come ebbe a scrivere Pasolini la sua poetica << è un movimento apparente, che istaura una sequenza drammatica con il qui e ora della contemporaneità >>.
La “percezione dell’ombra”, come la definisce Ezio Raimondi, è il dispiegamento dello sguardo, dell’attitudine poetica di un fanciullino ‘patetico’ che si addolora di un’assenza, di una confusione “doppia” di oggetti.
Si potrebbe definire la contemplazione, cioè una ricerca e una ricreazione di spazio, espressione intrinseca della poetica pascoliana. Poetica che esprime nella nebbia, ad esempio, l’emblema della doppiezza, della sottrazione e del riposo dello sguardo, di una visività tragica che determina una irresoluzione che rampolla << su l’alba/ da’ lampi notturni e da’crolli/ d’aeree frane! >>.
Si assiste ad un collegamento tra questa ed i movimenti dinamici del cielo collegati spesso alla eventualità mortale.
Dentro questa tragicità della vita, che Mario Luzi paragonava a quella di Leopardi pur nella differenza tra i due autori, le stelle sono espressione di una distanza mai colmata, di una rivoluzione copernicana non più geocentrica.
La virtualità sonora della lingua tesa (si pensi all’ “Assiuolo” di Myricae), come scrisse Gianfranco Contini, alla preoccupazione per la “morte delle parole” vibra di un impeto vitale ossimorico, “di una morte che è vita” (Davide Rondoni).
Non esiste nel poeta una domanda. Esiste invece una inquietudine arsa ma mai uno spazio di domanda: << Nascondi le cose lontane/ tu nebbia impalpabile scialba >> o come in “X Agosto” un infinito senso di perdita, di lutto, di andamento patetico nel senso nobile del termine.
È nei Primi Poemetti che meglio si esplicita questo radicale “misticismo astrale” (Russo). In un componimento “Il libro”, le pagine sono alzate e fatte ricadere dal vento, simbolo e segno dell’indomabile sete di conoscenza che spinge l’uomo a posare lo sguardo su quell’oggetto: sonorità del mondo.
“Se guardi il sole, occhio, che vedi? Un voto/vortice, un nulla”, scrive così il poeta in un abbozzo di Myricae. Sovrapposizione di assenza e movimento, dove c’è luce c’è buio, tutto coincide con il nulla “con l’occhio di Mimnermo e di Leopardi” (Serra) e tutto è soffuso in un’affettività decentrata, carattere peculiare dell’autore.
Sguardo ferito, dunque, deficitario tra l’io e le cose, dove non c’è urgenza, dove tutta la simbologia del recinto poetico delle cose umili e familiari è intrisa di una religiosità quasi “spenceriana” che nello strazio di uno spazio sterminato, racchiude la poesia come un velo, in una fiducia umanistica che non riconosce mendicanza ma che, allo stesso tempo, diviene religioso pianto di lacrime sull’ “atomo opaco del male” della terra, come nel poemetto “Il cieco”, grido enigmatico della realtà, sguardo interamente umano tra la consapevolezza del limite e l’attesa di un “oltre”, approdo di una constatazione ontologica della solitudine dell’io e l’intuizione di Altro, desiderato rapporto con la radice di se stesso, apice dell’umano: <<Ma forse uno m’ascolta; uno mi vede, / invisibile. Sé dentro sé cela. / Sogghigni?piangi? m’ami? odii? Siede / in faccia a me. Chi che tu sia, rivela / chi sei: dimmi se il cuor ti si compiace / o si compiange della mia querela! Egli mi guarda immobilmente, e tace, e più avanti : (…) Siede e mi guarda. O tu che ignoro e sento…>>
Nel grande enigma dell’esistente la solitudine e la paura susseguente sono caratteristiche di un desiderio di vicinanza che accomuna gli uomini, la cui esigenza di totalità sconfina nel perdono.
L’aspirazione dell’uomo, nella fugace intuizione positiva e costruttiva di un qualcosa che lo determini e lo compia, sembra essere frutto di una scelta di fraternità che attutisca il gelo universale (Luigi Giussani), nel mistero che avvolge, nella orfanità di un rapporto mancato con un affettività che emerge dirompente: <<Sempre. Io lo sento, tra le voci erranti, / invisibile, là, come il pensiero, / che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti, // sotto le stelle, il libro del mistero>>.
La poesia, realtà ontologica dunque, cardinale pudore di fanciullino, intuisce nelle cose le relazioni e riempie la memoria, trasformando la materia in luoghi di immaginazione “dove tutto è simbolo e tutto è realtà” (Pietrobono).
Nel riflesso della traccia delle stelle cadenti appare la profondità del volto, come una voce infinita di madre si dispiega la consistenza di uno sguardo sul dolore della realtà, nella quale esso diviene tragica contraddizione e nelle piaghe del vivere trova una risposta di solitudine.