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Gli indifferenti

Quando Moravia cominciò a scrivere il suo capolavoro nel 1925, non aveva ancora 18 anni. Intorno a lui l’Italia, su cui Mussolini aveva dichiarato la dittatura, andava a mano a mano abituandosi alle brutture del potere fascista. Alle squadracce d’azione, agli arresti politici. Ai morti ammazzati. Anche se Moravia di politica non si interessava affatto, è certamente riuscito attraverso la figura di Michele Ardengo a "ritrarre"  la tragedia (o non tragedia, se si vuole) di un paese incapace di reagire, ridotto al silenzio. All’apatia. Il contesto è ora cambiato, radicalmente. Ma l’assuefazione ad uno stato di cose orripilante, ove mai possibile, è aumentata. Le storie che di solito racconto, parlano di un’umanità violenta, slabbrata, brutale. Parlano delle favelas vicine a noi, così vicine che non riusciamo a vederle perchè ne facciamo parte e le alimentiamo con la nostra rabbia repressa. Con le nostre lacrime nascoste. Parlano di terre di confine, di gente che va  a lavoro e muore cadendo da un’impalcatura. Di trans che tornano la sera a casa con fratture multiple per la loro oscena diversità.  Di cantanti neomelodici morti in strade di periferia con un ago in vena e la schiuma alla bocca. Della digestione e del metabolismo della Nostra Madre Terra che tutto assorbe e trasforma. Non sono, anche se così non può sembrare, un amante del sangue e di riti ancestrali. Cerco di registrare semplicemente quello che mi circonda.Pur non riuscendoci, il mio obiettivo è quello di fotografare il "mondo" nel quale mi muovo. Senza mai cedere alla retorica e alle facili generalizzazioni. Al luogo comune. Alla descrizione macchiettistica e tipologizzante. Senza mai partecipare emotivamente alle vicende cui attingo a piene mani.Ma solo  seguendo il movimento vorticoso e contraddittorio della realtà e della disperata vitalità che mi costringe a fare questo.Più lo faccio, però, più la solitudine mi attanaglia. PIù lo faccio, più mi allontano dalle persone e dalle cose. Mi ritrovo nella più solitaria delle solitudini, senza manco un cane con cui discutere. Senza nessuno che possa ascoltare le mie proteste. Parlare di omologazione o di conformismo è desueto. Perchè quello che ci troviamo a vivere è un qualcosa di (in)differente. Di inquietante. Viviamo un gioco che altri giocano al posto nostro. Siamo al tempo stesso giocatori, giocattoli e posta in gioco. Si può vedere e accettare  tutto e il contrario di tutto.Non più responsabili delle nostre azioni, ci muoviamo su un palcoscenico buio come Lorenzino dei Medici (al secolo, Lorenzaccio), sempre anticipato da un’ombra nei suoi gesti anche più intimi. Un’ombra che lo contraddice e lo beffeggia, costringendolo a compiere azioni che non vorrebbe compiere. Sempre in ritardo. Sempre un momento dopo. Un palcoscenico, dunque, sul  quale una cosa vale l’altra e ciò che prevale è l’indifferenza di ogni cosa.

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