La poesia di Francesca Serragnoli (1972), una delle più grandi poetesse italiane, è un ponte tra richiami e abissi. Un coro dove la realtà distende il suo piano nel divenire e abita le stanze dell’ombra, quando la luce profuma di attesa.
La trama delle cose sono trama di vita e percorso. L’io si muove nello stupore della sostanza, nel fianco della gioia e del dolore e, soprattutto, del silenzio.
Esiste una piega nel suo verso. Un verso di lotta che canta i segni delle cose, che concepisce il riposo come terra di attracco e precipizio di amore profondo: <<Ho il corpo pieno di lampi / salgono in gola come animali / ingoio pastiglie come ciondoli / ricamo fiori per calmare le api>>.
Anche l’incapacità di farsi compagnia è una trama del mondo, nel fuoco e nei <<rami staccati>> che <<disegnano griglie nell’aria>>, la solitudine è quel buio che <<attende che una mano lo centri>>.
La sua forza poetica lascia nudi, inesplorati, a rigare il <<getto duro dell’alba>> e la carne è quell’abisso di un grido mai violento, che si rinnova a inseguire la coda delle cose, il cantiere di <<una guerra che non ti accade>>.
La poesia è uno sguardo che sboccia come una visione terragna, un saluto di scale e una corrente che riemerge dai <<paraventi inventati>>.
Il moto perpetuo della realtà sostanzia l’essere in un sentiero, in un nucleo che rende possibili il canto di una storia dolente, punto di uno spazio condiviso lungo il quale scorre, a essa inestricabile, come scrive Massimo Morasso, quella inimmaginabilmente più grande, per quanto altrettanto dolente e luminosa, del Verbo incarnato: <<Il cielo non è un bar per gente sola / ordino per te la pioggia / e Gesù fra i rami dell’acqua / come un pusher ci guarda / con la roba che spezza la morte>>.
Sia Il fianco dove appoggiare un figlio e sia Il rubino del martedì, le sue due raccolte, hanno la tensione dell’origine e la meta indocile della radicale appartenenza a un disegno grande e infinito.
Il lessico della Serragnoli vive i luoghi del popolo, le sincopi della parola, il dolore della pienezza.
La sua parola è l’indice della povertà ricca che colma le distanze con le figure, le abbraccia e le rende immuni. Il barlume che ama l’ombra.
Sono passaggi che luccicano come dolori in cerca di accensioni, di sbandamenti di moto, mai spersi e perduti, e che vivono di una voce silente, come la sua immagine che fruscia via senza farsi notare, cosicchè quando appare ha il colore del respiro.
Il rubino del martedì ha la gioia dello sguardo della coscienza indivisa e del dono. Racconta il mistero della vita umana, proprio come quei <<rifatti bambini che si tengono/ al mignolo di Dio / gli occhi sventolano bandierine colorate>>.
L’amore è una campagna che converge in un crocevia fragile e solenne, in un candore di occhi che percepiscono il reale nel suo avvenimento di giorni e sere mai uguali, di << struggimento dell’acqua per la terra>> e in cui il desiderio non è mai teatro retorico, ma margine di cielo: <<Vorrei arrivarti/ mentre bevi il tuo tempo / prima con il vento / poi colmando la tua semisete / in un movimento audace/ di pioggia e piano / avere nel volto / un leggero ritorno di cielo>>.
Si agita la fiamma dell’io, transitando sulla soglia della nudità, con accento e visione di un balzo mai inerte, che si fa movimento perenne e immagine rigogliosa.
<<Vorrei la spiaggia dei tuoi silenzi / labbra ferme che la notte chiude a chiave / labbra ferme che la notte chiude a chiave/ formule di corolle, margherite/ alghe che rinvieni fra le gambe / e se cambi destinazione elimini/ il mio nome dagli imbarchi guardami / sono una riva che odia le onde.>>.
Le parole sembrano sfidare le pagine a un corpo a corpo di pioggia di occhi che corrono sulla schiena, un attimo che percuote la stoffa del cielo.
Dicono che la poesia non abbia luogo perché li abita tutti e li incendia facendoli sbocciare. La poesia della Serragnoli entra in una stessa destinazione di vene e sangue, sfida le barriere umane senza mai essere costruzione a tavolino, anzi il tavolo di lavoro è messa in discussione di una tensione ricca e ricolma, germoglio imperituro di una notte che aspetta il giorno con reciprocità di forma.
Le strade della sua amata città, Bologna, sono l’incrocio umano di vento che percorre le strade e le figure, con la perizia del cesellatore di sguardi e promontori, di vertigini d’ombra delicata e paesaggio dell’anima.
Conoscere la sua poesia è un atto che non censura nulla, neanche l’immaginario nudo, aperto come vela sul palcoscenico del tempo e dell’io. Esso non è il suo fine ma il vertice dove confluiscono i suoi teneri e duri movimenti degli occhi.